Joe Biden - foto Ansa

Spunti

Così le prossime elezioni americane possono essere da lezione anche per noi europei

Andrea Graziosi

Il ritiro di Biden ferma la scontata vittoria di Trump. Che cosa indica la campagna elettorale degli Stati Uniti al nazionalismo in Europa e ai vari fronti di sinistra che si stanno consolidando (anche in Italia). Un nuovo discorso politico in questa nostra modernità matura

La rinuncia di Joe Biden potrebbe fermare la trasformazione di Donald Trump in probabile vincitore avviata dal primo dibattito televisivo e dallo sbandamento del Partito democratico. Puntavano in quella direzione i sondaggi negli stati in bilico, l’attentato e la reazione dell’ex presidente, e una convention trionfale per l’omaggio reso a Trump dagli ex oppositori, per l’entusiasmo dei delegati e per la nomina di un candidato alla vicepresidenza giovane e aggressivo. Ora l’esito appare meno scontato – Kamala Harris potrebbe tanto restituire al partito i voti di non pochi delusi e quelli orientati su formazioni minori, quanto fargli perdere elettori più moderati – ma le elezioni di novembre segneranno comunque una svolta importante, moltiplicando gli effetti della tornata elettorale in Europa. Vale quindi la pena ragionarci alla ricerca di punti fermi, al di là di esiti elettorali che possono variare in modo inatteso fino all’ultimo minuto.
  

Il primo dato che sembra incontestabile è quello del vantaggio tattico e intellettuale di cui gode sul continente europeo come negli Stati Uniti quella che è giusto definire una nuova destra, e di cui infatti non gode un partito conservatore come quello inglese, ancora legato ad un modello più tradizionale. Trump, J. D. Vance, Giorgia Meloni, Marine Le Pen o Viktor Orbán, pur così diversi tra loro, guidano invece partiti lontani da quel modello anche perché da qualche decennio provano a entrare in sintonia con alcune delle grandi mutazioni delle società in cui agiscono.
  

Negli Stati Uniti i segni della rottura del fronte democratico emerso col New Deal datano dagli anni Settanta, quando reagendo al riaprirsi dell’immigrazione e alle politiche di discriminazione positiva parte del mondo sindacale e del lavoro prese a spostarsi verso repubblicani che nei decenni successivi cominciarono a loro volta ad abbandonare le loro tradizioni liberiste e “imperiali” davanti a una crescita cinese percepita come una minaccia per il “secolo americano”. La crisi delle strutture famigliari e l’importanza dell’istruzione nel determinare la stratificazione sociale, che hanno spinto verso i democratici una parte crescente delle nuove élite, hanno avuto un impatto simile. Nelle aree segnate dall’emarginazione socio-economica descritta nel romanzo di J.D. Vance, questo impatto è stato inoltre radicalizzato dalla tragedia che ha colpito i gruppi toccati dalla marea delle “morti per disperazione”, cioè per droga e suicidio.
  

Come notò Pierre-André Taguieff, anche in Francia Le Pen padre cominciò già negli anni Settanta a cercare una nuova destra capace di lasciarsi alle spalle, malgrado i rimpianti, un passato legato alla Seconda guerra mondiale. Lo fece guardando ai tentativi di Almirante di ridefinire e ampliare la base del Movimento sociale italiano attraverso slogan che si direbbero oggi neo-populisti (la triplice sindacale, la corruzione partitocratica ecc.). Le condizioni francesi permisero tuttavia a Le Pen e ad alcuni intellettuali di cogliere con più chiarezza alcuni dei possibili caposaldi di questa nuova destra: nazione e sovranità nazionale (e quindi anche ostilità alla “burocratizzazione” europea presentata come una minaccia per la democrazia sovrana, ma in realtà conseguenza delle scelte politiche dei paesi membri per difendere la loro sovranità separando la politica dalla costruzione europea); resistenza a un’immigrazione che minacciava l’identità dei “nativi” unita all’accettazione delle politiche identitarie sostenute dalla sinistra, che venivano allargate a comprendere anche l’identità dei francesi (o degli italiani, dei padani ecc.); accettazione dell’idea repubblicana in chiave popolare e populista; abbandono della difesa dei privilegi tradizionali; ed esaltazione del bisogno di nuove solidarietà famigliari, legate alla difesa della vita contro l’aborto e di un cristianesimo, svuotato dalla secolarizzazione, contro l’islam (una posizione, quest’ultima, che ha contribuito al parziale abbandono delle posizioni anti ebraiche).
 

La destra ha smesso così col tempo di parlare ai benestanti, e si rivolge a chi si sente lasciato indietro dalla scuola, dall’Europa, dalla “globalizzazione”, o più semplicemente dalla vita, magari anche solo a causa dell’età. A questi strati “parlano” Trump, Vance, Meloni o Marine Le Pen, legata per qualche anno a un dirigente del suo partito di origine ebraica-algerina.
 

Si tratta di una destra pericolosa perché nuova e più aggressiva, ma soprattutto perché il suo discorso si regge sull’adesione in larga parte sincera a un nuovo ibrido tra nazionalismo e rivendicazioni sociali e popolari che, nelle sue forme precedenti, è stato responsabile – con un comunismo per fortuna ancora in ritirata – di buona parte delle tragedie umane del XX secolo. Sono tragedie della cui possibile ripetizione è facile scorgere i segni in un mondo dominato da superpotenze che rifiutano di riconoscersi; nei prodromi delle tensioni che potrebbero squassare Nato e Unione europea in caso di vittoria di Trump, con risultati catastrofici per il benessere europeo; nella fede più volte espressa da Meloni nella nazione come unica “comunità naturale” cui ispirarsi (una fede che spaventa per le reazioni nazionaliste che potrebbe scatenare di fronte a richieste europee di mettere in ordine i nostri conti, richieste abitualmente fatte nel peggiore dei modi possibili ma con effetti alla fine benefici, come dimostra la Grecia); o nell’aggressione russa all’Ucraina, visto che in fondo il putinismo non è che una delle tante espressioni di questo nuovo ibrido nazionale, un Make Russia Great Again che persegue autolesionistiche politiche contro i migranti dell’Asia centrale mentre perde centinaia di migliaia di giovani russi per effetto della guerra che ha scatenato.
 

Il secondo dei segnali forti di questa tornata elettorale, un segnale che potrebbe ripetersi negli Stati Uniti se i democratici uscissero dal vicolo cieco, è che però almeno nei paesi del vecchio occidente in crisi le forze che si richiamano ai “miracolosi” decenni seguiti al 1945 sono ancora le più forti. È la loro soprattutto una forza numerica, nutrita dall’ampiezza degli strati che quei decenni hanno conosciuto e ne ricordano bene – anche per l’allungamento dell’attesa di vita – benefici e vantaggi. Essa si regge insomma sul richiamo dei bei tempi passati, che ispira a sua volta una “ragionevolezza” comprensibile (chi non vorrebbe tornare alla lunga pace, all’allargamento continuo dei diritti, alla pensione a 60 anni con davanti 20 e più anni di vita in buona salute ecc.), e quindi socialmente composita e trasversale, e anche per questo numericamente forte.
 

Si tratta però di una “ragionevolezza” sostanzialmente conservatrice anche quando si vena di fiammate aggressive di fronte alla prospettiva di un’erosione di quei diritti, di una posticipazione di quelle pensioni ecc. In altre parole questo fronte maggioritario che più che di centrosinistra si potrebbe definire – senza sarcasmo – dei buoni sentimenti e delle buone intenzioni è alimentato soprattutto, ma non solo, da un buon passato e da un rimpianto che rende questo passato più dorato di quanto non fosse. Questo fronte non riesce però – e questa è la terza lezione di queste elezioni – a interpretare un presente e un futuro tanto diversi da esso: basti a questo proposito pensare al capovolgimento del peso degli ultrasettantenni rispetto a quello dei minori di vent’anni, o alla marginalizzazione dell’Europa in un mondo da essa dominato fino a qualche decennio fa. Esso non è stato quindi finora in grado di elaborare discorsi credibili su come rendere quel futuro migliore, rispondendo alle ansie che esso suscita negli anziani come tra i più giovani e in particolare nelle fasce più deboli
 

Anche per questo la sua forza continua a restare essenzialmente nel numero, che non è però una variabile trascurabile. È vero che i numeri, senza idee ed energia, alla fine vengono sconfitti. Ma finché ci sono è logico e opportuno profittarne, non solo per rinviare – come pure è giusto fare – l’arrivo di tempi più duri e idee peggiori, ma anche per guadagnare il tempo necessario per creare le nuove idee e i nuovi programmi di cui c’è bisogno, e di farlo nelle migliori condizioni possibili.
 

Che ciò sia possibile lo dimostrano l’esempio britannico, che pur possiede altri tratti peculiari oltre quelli del suo Partito conservatore, e ancor più quello francese, quello tedesco e quello dell’Unione europea – dove questa maggioranza residuale ha preso le forme dell’accordo tra popolari, socialdemocratici e verdi, nonché quello italiano. Lo potrebbe in teoria dimostrare anche il caso americano, minato dal comportamento di una generazione che non ha accettato invecchiamento e morte (pensiamo a Ruth Bader Ginsburg che nega le sue dimissioni a Obama e permette ai repubblicani di assumere il controllo della Corte suprema) e dalle follie ideologiche di una sinistra che è riuscita a sostenere le posizioni più assurde e controproducenti.
 

Paradossalmente la tenuta di questo fronte dei buoni sentimenti e delle buone intenzioni è oggi sostenuta dai sistemi elettorali maggioritari, ed è questa la quarta lezione. Prima di vedere come e perché, è però necessario ribadire che nel mondo nuovo in cui viviamo il maggioritario può essere una delle cause, oltre che una manifestazione, della crisi dei nostri sistemi politici. Come anche queste elezioni suggeriscono, ed è questa più una conferma che una lezione, oggi esso rappresenta infatti anche una minaccia per la liberaldemocrazia e può favorire la costruzione di sistemi autoritari.
 

Questo perché in una situazione dominata dalle aspettative decrescenti e dalla disillusione il maggioritario può diventare uno strumento di leader interessati a costruire un sistema di potere personale, come è già avvenuto in Ungheria e stava per succedere in Polonia; tende in ogni caso a soffocare la politica come ragionamento e mediazione, vale a dire l’autonomia di cui la politica ha bisogno per far fronte a un cambiamento oggi spesso difficile; spinge al muro contro muro e porta tutti, ma specialmente chi è in svantaggio programmatico (e oggi quindi il possibile fronte antinazionalista) a reagire alle iniziative di chi un programma lo ha, facendosi così definire dall’avversario e complicando la ricerca di discorsi propri e originali; e infine perché in società rese sempre meno omogenee e più plurali dalle dinamiche demografiche e dall’immigrazione, il maggioritario – che pure potrebbe alla lunga favorire l’integrazione – rischia in un primo e pericoloso periodo di assegnare un peso sproporzionato a gruppi identitari “eterodossi”. Questi ultimi possono infatti rispondere alla negazione della rappresentanza diretta entrando, dietro compensi anche solo in termini di riconoscimento, in uno dei due blocchi, alterandone le politiche (pensiamo al peso e all’influenza del voto musulmano nel partito di Mélenchon, un peso e un’influenza che potrebbero spostarsi un domani su altri schieramenti).
 

In Italia, in particolare, molte di queste tendenze sono aggravate dalla natura partitocratica del nostro maggioritario, che affida la scelta dei deputati alle segreterie dei partiti. Data la necessità che sente ogni schieramento di tenere dentro tutti sin da prima delle elezioni, esso crea inoltre blocchi che tendono verso le estreme invece che verso il centro e hanno poi anche per questo difficoltà a governare, aggravando la richiesta di una leadership forte.
 

Tuttavia, poiché è irrealistico pensare di poter tornare a un proporzionale temperato da una soglia di sbarramento, provo a ragionare sulla quarta lezione, vale a dire sulle paradossali “virtù” acquistate in questa situazione da un maggioritario che – proprio a causa del suo favorire il muro contro muro – spinge in direzione di una grande coalizione tra chi si ricorda o ha saputo delle “conquiste” e dei principi buoni di un recente passato ed è perciò ostile al nuovo nazionalismo di una destra più o meno populista.
 

Anche da questo punto di vista la Gran Bretagna costituisce un’eccezione. Se è vero che la sua tradizionale forma di maggioritario ha regalato ai laburisti una forte maggioranza con meno del 34 per cento dei voti, questo trionfo non è stato ottenuto grazie a una alleanza traversale, ma in virtù della divisione dei conservatori da cui si è staccata la costola di Farage, che ha tolto loro quasi il 40 per cento dei suffragi, e del tracollo dello Scottish National Party – un partito della sinistra identitaria – che ha regalato ai laburisti i seggi scozzesi. Starmer ha comunque ora il tempo per trovare un nuovo discorso e nuovi sostenitori, anche attraverso nuove convergenze ed è quindi più avanti del Nuovo fronte popolare francese. Quest’ultimo è riuscito a battere la destra grazie appunto a una alleanza elettorale, ispirata dagli eventi italiani oltre che dal passato francese, che è però basata sulla pura negazione dell’altro e quindi difficilmente in grado di esprimere un programma (quello messo su in fretta per cementare l’accordo è talmente irrealistico che non vale la pena di parlarne, se non per notare che esprime essenzialmente il rimpianto per un passato che non c’è più). Senza gli accordi di desistenza coi partiti del centro riformatore, questa alleanza sarebbe inoltre stata probabilmente sconfitta.
 

Arriviamo così all’Italia che, malgrado forti differenze, presenta in controluce aspetti che richiamano la situazione francese. Anche da noi c’è una nuova destra avanti in termini di discorsi e programmi, per quanto sbagliati, e anche vittoriosa. E anche da noi essa ha a capo una donna con una vita che ha poco della destra tradizionale, nonché dotata di evidenti qualità politiche. I conti con l’altro suo possibile leader, Matteo Salvini, sono stati fatti, ma non completamente in virtù della scommessa su Vannacci – che ha salvato la Lega italiana da una débacle –  della possibile vittoria di Trump e della parziale “riemersione” di Putin. Vannacci ha però approfondito la crisi della Lega del nord, che non è in teoria immune a un’opa di Forza Italia condotta garantendole ampi margini di autonomia.
 

Anche una possibile alleanza di “centrosinistra” è al tempo stesso più indietro e più avanti che in Francia. Elly Schlein ha vinto perché non ha perso e soprattutto perché ha perso Giuseppe Conte, il suo concorrente per la guida dell’opposizione, piegato dai suoi limiti e dai suoi errori, resi evidenti dalla scelte in Basilicata. Schlein ha però ribadito la sua capacità di dialogare con la nuova sinistra identitaria emersa alla fine del secolo scorso e ha dimostrato polso e spregiudicatezza, espressa da un ricorso al passato (pensiamo all’uso di Berlinguer) che fa concorrenza diretta alla destra, nonché dal mettere insieme posizioni antagonistiche in materia di politica estera.
 

Certo, anche le sue debolezze, prima di tutto culturali e strategiche, sono  emerse con ancor più nettezza. Il programma che Schlein ripete in televisione è meno irrealistico di quello del Fronte francese ma, anche tralasciando il vuoto della politica estera, che fa a pugni con le dinamiche del  mondo, esso è al più una sommatoria di alcuni dei temi meno conflittuali del passato: salario minimo, unità nazionale, diritti, difesa della Costituzione ecc., una specie di minimo comune denominatore su cui possono convergere le buone intenzioni e i buoni sentimenti in un fronte rinsaldato da una demonizzazione dell’avversario fondata sul tentativo di schiacciarlo sul passato, un’operazione sbagliata, ma che funziona.
 

La sconfitta del Movimento 5 Stelle e quella del Terzo polo, causata dai diversamente grandi limiti dei suoi due leader, rendono però oggi possibile anche in Italia un nuovo fronte popolare imperniato sul Partito democratico, un’alleanza larga favorita appunto dal maggioritario. La sua vittoria potrebbe garantire qualche anno di equilibri meno conflittuali e meno pericolosi, anche sul fronte europeo, e non va quindi disprezzata. Ma essa conquisterebbe soprattutto condizioni migliori, e tempi più tranquilli, di cui potrebbero profittare le forze riformatrici – chiamate oggi a superare le loro divisioni – per elaborare un programma capace di affrontare i tempi nuovi e pericolosi in cui viviamo.
 

Lavorarci è comunque il compito più importante, anche in caso di sconfitta. Senza un nuovo discorso politico, senza una nuova capacità di alleviare timori e paure, e senza nuove idee e proposte in materia di denatalità e famiglia, invecchiamento, vita e morte, emarginazione giovanile, valorizzazione delle capacità delle donne, crisi del ruolo maschile, politiche di immigrazione, difesa della nostra cultura e della nostra scienza ma in nome dell’apertura e non di una chiusura suicida, e di alleanze politiche e economiche internazionali capaci di far fronte alla perdita di posizioni dell’Europa, anche vincere alla lunga servirebbe a poco.
 

Questo discorso è infatti indispensabile per parlare col grande bacino “reazionario” di massa popolare, fatto cioè dai ceti e strati che si sentono o sono marginalizzati (come lo è, oggettivamente, la maggioranza dei vecchi) dalla Modernità matura in cui viviamo, così diversa da quella che avevamo imparato a conoscere. In questa modernità il nemico principale non è più, se mai lo è stato, il “capitalismo” ma un populismo radicale e nazionalista di destra per sua natura più adatto alla società invecchiata delle aspettative decrescenti. Esso può essere sconfitto elettoralmente sul breve periodo, ma può essere battuto solo da un discorso capace di rispondere ai problemi di cui esso rappresenta al tempo stesso un’oscura manifestazione e una risposta autolesionistica.