L'editoriale dell'elefantino
Non si capiscono le obiezioni di chi ha accolto con ostilità Netanyahu a Washington
Strette di mano mancate, assenze ingiustificate, dichiarazioni censorie. L’eco americana agli slogan che vogliono legare le mani a Israele è il simbolo tragico di una schiena piegata. America amara
America amara. Non si capiscono le obiezioni di parte dell’establishment che ha accolto a Washington con un misto di riluttanza e diffidenza o aperta ostilità il capo del governo di Israele, paese in guerra da nove mesi, dopo il pogrom del 7 ottobre, per sconfiggere un movimento terroristico armato fino ai denti dall’Iran, ispirato dalla furia nichilista e antiebraica della Fratellanza musulmana, votato alla distruzione del paese vicino e del suo popolo. Hamas sta arrivando, Hamas is coming: così hanno imbrattato un monumento i manifestanti pro palestinesi fuori dal Campidoglio dove Netanyahu parlava.
Le strette di mano mancate, le assenze ingiustificate, le dichiarazioni censorie in nome del cessate il fuoco ovvero della resa a Sinwar, l’attribuzione subdola a Israele della responsabilità per la detenzione degli ostaggi nei tunnel o negli uffici di famiglie palestinesi a Gaza, le orecchie da mercante che hanno accolto l’appello a schierarsi contro l’islam politico iraniano in un confronto e scontro tra civiltà e barbarie, tutto questo magari non c’entra direttamente con la vernice rossa di quell’Hamas is coming, ma indica, insieme con l’imminente decisione di Keith Starmer di autorizzare il mandato di cattura della Corte penale internazionale (Cpi) per i governanti di Gerusalemme, una dipendenza dall’onda della demagogia umanitaria trionfante nel mondo del nuovo antisionismo e antisemitismo dispiegati dai campus alle piazze ai parlamenti. Non bastano gli opportunismi ovvi di una campagna presidenziale a spiegare il tutto.
Proprio non si capiscono, queste obiezioni, specie quando vengono da persone responsabili e da sostenitori della democrazia e in alcuni casi anche della democrazia sionista sotto attacco. Israele poteva fare altrimenti? Poteva intavolare un negoziato sui due stati e due popoli con Hamas attraverso i qatarini e gli iraniani e gli Hezbollah e gli houthi invece di combattere? Poteva astenersi dalla tragedia per tutti di una guerra non voluta e non provocata? Poteva sgombrare il campo e stendere al vento e al cielo una bandiera arcobaleno, Peace now? Aveva cercato la normalizzazione diplomatica con gli stati arabi del Golfo, aveva perfino pensato a una convivenza discorde e nemica con la Gaza in cui la mafia di Hamas si era impadronita del potere e del denaro internazionale quattordici anni fa e lo gestiva per gli scopi che si sono visti, intanto bombardando dai rifugi il territorio sovrano di Israele. Doveva subire perché le guerre fanno molti morti, fra i tuoi e i loro, compresi i bambini, specie in un territorio densamente popolato? O alle origini c’è un peccato originale biblico, dal fiume al mare, e gli ebrei devono sgombrare decisamente il campo della loro indipendenza e sicurezza stabilito nel 1948 e difeso da allora con le unghie e con i denti e con strategie di pace regolarmente fallite, in una linea contrastata ma sostanzialmente omogenea chiunque governasse il paese e il suo esercito e il suo Parlamento?
Nessuno ha mai proposto una vera alternativa al combattimento, i cui costi ricadono sui palestinesi e sugli israeliani, incolpevoli questi ultimi della vergognosa “classe dirigente” all’origine del pogrom e della sua diffusa cultura e educazione popolare al sacrificio e alla morte per la distruzione dell’ebreo. Hamas is coming. L’eco americana o di una parte del ceto parlamentare americano agli slogan che vogliono legare le mani a Israele, e ogni eco è sempre indiretta, indistinta, nebbiosa, distante ma si sente, è il simbolo tragico e spietato di una schiena piegata, di un occidente che può ormai fare qualunque cosa in una situazione prenucleare del medio oriente e in un teatro di autocrazie e fanatismi all’offensiva in tutto il mondo. America amara, molto amara.