negli usa

Netanyahu e Trump si rincontrano dopo quattro anni

Micol Flammini

Il premier israeliano e sua moglie vanno a Mar-a-Lago a riconquistare l'ex capo della Casa Bianca. Cosa è cambiato dal 2020 e il fattore Sara

All’arrivo a Mar-a-Lago, la prima ad andare incontro a Donald Trump per salutarlo con calore è stata Sara Netanyahu, moglie del premier israeliano, che invece sembrava impacciato: ha stretto la mano all’ex presidente, gli si è avvicinato e si è ritratto subito indietro, mentre Trump continuava a riservare attenzioni a Sara, sempre loquace nelle visite del marito. L’ultima volta che Donald Trump e Benjamin Netanyahu si erano incontrati era il 2020, il premier israeliano era a Washington per firmare gli Accordi Abramo, pensati per rivoluzionare il medio oriente partendo dalla normalizzazione dei rapporti tra Emirati  Arabi Uniti, Bahrein e Israele.  Quel giorno Trump e Netanyahu avevano un sorriso splendente, non finivano di darsi pacche sulle spalle, si guardavano annuendo, si sentivano i costruttori di una struttura fatta per tenere. Gli Accordi di Abramo sono stati un punto di svolta, indimenticabile, ma sono anche diventati un punto di attrito tra Trump e Netanyahu. Il rapporto tra l’allora presidente americano e il tuttora primo ministro israeliano era ottimo, e la simpatia per Trump, dicono i suoi ex collaboratori, incide molto sulle sue scelte. Trump ha fama di capriccioso, personalizza tutto e non ha mai perdonato a Netanyahu di aver chiamato Joe Biden dopo il risultato delle ultime presidenziali per congratularsi della vittoria: una telefonata dovuta, razionale, logica, con cui il premier israeliano ovviamente riconosceva il risultato elettorale che Trump continuava, e continua   ancora, a definire falso. Il giornalista israeliano Barak Ravid, nel suo libro “Trump’s Peace”, riporta alcune frasi che l’ex presidente americano pronunciò dopo aver saputo della chiamata fra Netanyahu e Biden: “Nessuno ha fatto di più per Bibi – ha detto Trump, chiamando Netanyahu con il suo diminutivo – a me piaceva Bibi. Mi piace ancora, ma a me piace anche la lealtà. Non ho  più parlato con lui da allora. Si fotta”. Trump era offeso, piccato, si sentiva tradito: gli Accordi di Abramo erano stati firmati il 13 agosto, tre mesi prima del voto negli Stati Uniti, gli sembrava impossibile che Bibi non si ricordasse neppure del fatto che l’Amministrazione Trump aveva spostato l’ambasciata a Gerusalemme, riconoscendo la città come capitale dello stato ebraico, e aveva riconosciuto anche la sovranità israeliana sulle alture del Golan. Netanyahu se ne ricordava eccome e anzi oggi è convinto che l’eventuale ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca potrebbe avvantaggiare lo stato ebraico e  portare a un accordo di normalizzazione con l’Arabia Saudita più favorevole, senza troppe concessioni. Ma i buoni rapporti di un tempo, Netanyahu deve riconquistarli e parte della sua visita negli Stati Uniti, iniziata lunedì, è dedicata proprio alla ricostruzione dei suoi rapporti con Donald Trump, 

 

Giovedì,  Trump aveva detto a Fox News che è arrivato il momento  di concludere un accordo per liberare gli ostaggi e cessare la guerra a Gaza. Il candidato repubblicano si è aggiunto alla pressione che già esercitano i democratici, sia Joe Biden sia Kamala Harris nell’incontro con Netanyahu hanno insistito sulla necessità di arrivare a un patto il prima possibile – domenica si terrà a Roma un incontro tra il direttore della Cia Bill Burns, il capo del Mossad David Barnea, il premier del Qatar e il capo dell’intelligence egiziana per parlare dell’accordo. La pressione del presidente e della sua vice non ha sorpreso il premier israeliano, le parole di Trump sono invece arrivate inaspettate. Il giorno prima l’ex presidente aveva pubblicato la lettera che Mahmoud Abbas, il leader dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), gli aveva inviato dopo l’attentato del 14 luglio a Butler, in Pennsylvania, per esprimere la sua solidarietà: “Gli atti di violenza non devono avere posto in un mondo di legge e ordine”, aveva scritto Abbas. Trump aveva pubblicato una foto della lettera con su scritto: “Mahmoud, sei così gentile, grazie. Andrà tutto bene”. Le tempistiche vanno studiate e ripercorse con attenzione: quando Netanyahu era arrivato negli Stati Uniti non aveva ricevuto ancora nessuna conferma riguardo al suo incontro con Trump che evidentemente preferiva lasciare il leader israeliano in un limbo. Martedì Trump ha pubblicato un post sulla sua piattaforma social, Truth, dicendo che l’incontro con Bibi si sarebbe tenuto giovedì e poco dopo ha reso nota anche la lettera del capo dell’Anp, nel tentativo di trovare un equilibrio tra israeliani e palestinesi. Qualche istante più tardi, Trump ha corretto il post, dicendo che lui e  il premier israeliano  si sarebbero visti venerdì: “Non vedo l’ora di incontrare Bibi Netanyahu venerdì, e sono ancora più impaziente di raggiungere  la pace in medio oriente”. Era stato  l’israeliano a chiedere un incontro di venerdì, dopo la visita a Biden e a Harris e nel giorno del compleanno di suo figlio Yair, che non ha mai lasciato Miami dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, si è tenuto lontano dalla guerra, diffonde teorie del complotto sui social, dove dedica post velenosi anche all’esercito israeliano e all’intelligence. 
 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)