Occhio al riformista d'Iran

Il nuovo presidente vede i problemi ma non ha (ancora) il coraggio. Ha vinto grazie alle minoranze arrabbiate e alla figlia consulente politica

Cecilia Sala

Si insedia Pezeshkian, un khomeinista che ha cambiato idea sul velo per legge, un leader che sa piangere in pubblico e ha cresciuto una bambina da solo. In una morte in cella di vent’anni fa c’è la sintesi della sua storia politica: denuncia e compromesso

Zahra Kazemi muore di botte a cinquantacinque anni un giorno d’estate del 2003 dentro a una cella di Evin, la prigione di Teheran ai piedi delle montagne. I poliziotti dicono che è stato un malore a uccidere la fotoreporter con il doppio passaporto iraniano e canadese. Un infarto, probabilmente. E’ la stessa causa di morte che, diciannove anni dopo, la polizia morale userà per dichiarare risolto in fretta il caso di Mahsa (Jina) Amini. Con l’obiettivo di spegnere sul nascere una scintilla che invece divampa nell’incendio “Jin, Jiyan, Azadi” – il motto curdo della protesta che in italiano si traduce con “Donna, vita, libertà”.

Quando Zahra Kazemi muore in cella dicono per il suo cuore troppo debole, Masoud Pezeshkian è il ministro della Sanità della Repubblica islamica. Nemmeno lui si fida dei poliziotti di Evin e visto che di mestiere fa il cardiochirurgo si presenta in prigione per eseguire l’autopsia di persona. Dopo aver guardato con i propri occhi, Pezeshkian dice: il cuore non era debole, Kazemi è stata uccisa da un colpo in testa.

 

La versione ufficiale della magistratura islamica inciampa. Un medico ministro ha dato ragione alla famiglia Kazemi che in quei giorni di luglio ripete: “Avete ammazzato nostra figlia”. Ma dopo la sua scoperta il ministro non prende alcuna iniziativa e il caso viene risolto come volevano la magistratura islamica e i poliziotti. Oggi Masoud Pezeshkian si insedia come nuovo presidente dell’Iran e in questo episodio di ventuno anni fa potrebbe esserci la sintesi della sua esperienza politica: la capacità di vedere il problema, la denuncia, l’incapacità di trovare la soluzione, il compromesso.

 

Pezeshkian è nato nell’Iran delle minoranze etniche a Mahabad, a meno di cento chilometri da dove è nata Mahsa (Jina) Amini. E’ mezzo curdo e mezzo azero e senza le minoranze che lo hanno votato a valanga oggi non sarebbe presidente. Quando è arrivato il giorno del ballottaggio, Pezeshkian ha preso più del quadruplo dei voti del suo avversario in Kurdistan, nell’Azerbaigian iraniano dove l’ex presidente Ebrahim Raisi si è schiantato con l’elicottero e nella provincia ribelle del Sistan e Baluchistan. In numeri assoluti, il suo vantaggio sullo sfidante nelle province non persiane è di tre milioni e trecentomila voti, a livello nazionale è più basso: due milioni e ottocentomila voti. Significa che senza le minoranze Pezeshkian avrebbe perso.

 

Alle elezioni in due turni del 28 giugno e 5 luglio un po’ più della metà degli iraniani è rimasta a casa. Ma anche l’elettorato fedele al sistema, quello che ai seggi ci è andato, ha preferito il candidato che propone di rivedere la legge sul velo obbligatorio e di alleggerire controlli e punizioni per le donne che non si coprono. “Il mio governo si opporrà alla polizia morale. Io sono contro qualsiasi forma di coercizione e noi non abbiamo il diritto di obbligare una ragazza a fare una cosa che non vuole fare. Mi vergogno del comportamento delle autorità nei confronti delle donne”, diceva il neopresidente durante la campagna elettorale. E diceva anche che sarebbe meglio dialogare con l’occidente invece di considerare le sanzioni una medaglia e “l’economia di resistenza” non un incidente di percorso ma un sacrificio eroico che corrisponde al destino dell’Iran.

 

Pezeshkian ha promesso di dare più potere ai tecnici per rimettere sui binari giusti l’economia nazionale “ma non ha detto quali riforme servano, in campagna elettorale è stato fumoso e penso non sappia neanche lui che cosa vuole fare”, dice Maryam Shokrani, giornalista economica del quotidiano riformista Shargh, che parla al Foglio da Teheran. “La nostra economia si basa sul petrolio e sul gas, l’Iran è al quarto posto nel mondo per riserve di petrolio e al secondo per riserve di gas, ma il controllo delle risorse è di fatto nelle mani delle Guardie della rivoluzione islamica e di Ali Khamenei. Le cose non sono cambiate durante gli anni dei moderati al governo, sostenuti anche dai riformisti: l’economia è rimasta la stessa, gestita da alcune fazioni del clero e dai pasdaran che sono l’equivalente iraniano degli oligarchi russi e che hanno accumulato ricchezze leggendarie per poi investirle – attraverso i figli – in Europa e in Canada”.

 

Durante l’ultimo governo moderato, tra il 2013 e il 2021, la crescita media è stata attorno allo zero per cento e alla fine di quei due mandati consecutivi durati otto anni il reddito pro capite degli iraniani si era ridotto di un terzo. “E il tasso d’inflazione è stato a doppia cifra, tranne che per due anni, quelli in cui era in vigore l’accordo sul nucleare firmato nel 2015 con l’Amministrazione Obama”, fa i conti Shokrani. “Qui funziona così: ogni volta che aumenta la pressione internazionale su Khamenei e sui pasdaran, la Guida suprema permette ai moderati di prendere il controllo del governo per ingannare gli stranieri e allentare i lacci attorno all’Iran. Lo fa perché si dica in giro che le riforme sono in corso – anche se non è vero”, taglia corto la giornalista di Shargh.

 

Soltanto pochi mesi prima di vincere le presidenziali indette in anticipo per rimpiazzare Raisi morto nell’incidente con l’elicottero, alle elezioni legislative di marzo, Pezeshkian era stato escluso dal Consiglio dei Guardiani – una corte di anziani ayatollah nominata per metà dalla Guida suprema che fa la selezione all’ingresso dei candidati. E’ stato Khamenei a correggere il tiro del Consiglio e a dire che per la nuova tornata elettorale di giugno un riformista come il cardiochirurgo delle province remote faceva gioco, anche perché c’era da ravvivare un po’ il panorama politico per evitare un nuovo record negativo di affluenza alle urne. “In Iran il presidente ha poteri limitati e Khamenei è il decisore finale, però è un insulto all’intelligenza collettiva sostenere che un uomo di ottantacinque anni controlli da solo tutte le leve del potere. Non si può pensare che la Guida sia in grado di prevedere e pianificare ogni movimento come il burattinaio perfetto. Se fosse così, il paese non si troverebbe nello stato in cui è, non sarebbe successo quello che è successo e le elezioni non sarebbero andate come sono andate”, dice al Foglio Mohammad Ali Shabani, giornalista e analista iraniano di Amwaj che vive a Londra. “Facciamo un esempio: oltre alla frattura evidente tra le istituzioni della Repubblica islamica e la società iraniana, ci sono divisioni profonde anche dentro il campo conservatore fedele alla Guida suprema. I conservatori sono rimasti divisi nonostante i continui appelli all’unità di Khamenei. Si sono presentati divisi alle elezioni mentre soltanto uniti potevano battere Pezeshkian. E hanno perso. Ecco che nonostante la selezione rigida dei candidati la politica iraniana mantiene un margine di imprevedibilità come ha dimostrato l’ultimo voto”.

 

Masoud Pezeshkian parla cinque lingue: curdo, persiano, turco, arabo e inglese. Ha studiato leadership clinica a Harvard – che vuol dire: come si dirige una struttura medica e chi ci sta dentro. E’ un tifoso del Tractor, la squadra di calcio della città di Tabriz. Si è sposato con una ginecologa collega di università. Chi li ha conosciuti dice che il loro è stato un matrimonio tra pari, che in casa non comandava nessuno. Sua moglie Fatmeh Majidi è morta nel 1993 assieme al figlio più piccolo della coppia in un incidente d’auto. Sono passati trentuno anni e Pezeshkian non si è mai risposato, che si sappia non ha mai avuto un’altra donna. Ha cresciuto da solo una bambina che oggi è una chimica all’Università Sharif di Teheran – il politecnico soprannominato “l’Mit del medio oriente” – e che gli fa da consulente politica. Forse lei ha avuto un ruolo nella vittoria del padre alle elezioni, perché uno dei pochi momenti vivaci della campagna elettorale è stato quando gli iraniani hanno messo a confronto la figlia del candidato dato per favorito al primo turno, lo speaker conservatore del Parlamento, con la figlia del riformista. Sui social network e nei salotti dei talk show gli elettori hanno decretato che la prima fosse “arrogante e distaccata dalla realtà”, “una che guarda le persone comuni dall’alto in basso e non ha idea di come sia tirare avanti per un iraniano normale”, e la seconda “umile”, “competente”, “semplicemente adorabile”. In uno degli spot elettorali della campagna presidenziale, una telecamera segue Pezeshkian dentro il cimitero fino a scorgere il nome Fatmeh inciso sulla tomba di sua moglie. Il candidato dice con voce rotta: “Mi manchi, vorrei più che mai averti al mio fianco adesso che mi sono preso questo impegno importante”. Dalle lacrime alle dichiarazioni d’amore pubbliche è tutto nuovo per la politica iraniana.

 

Negli anni in cui Masoud Pezeshkian e Fatmeh Majidi si sono conosciuti, la rivoluzione islamica aveva vinto da poco. Pezeshkian era stato un piccolo leader locale del movimento che travolse la monarchia e gli spettava una fetta di potere. All’epoca sul velo la pensava diversamente da oggi. Nelle università che ha diretto, ha scoraggiato e poi proibito agli studenti di visitare pazienti donne, ha imposto ai maschi le maniche lunghe e alle centinaia di studentesse che portavano i capelli liberi di mettere l’hijab in testa. Non era scontato perché l’obbligo del velo non esisteva ancora: dopo la rivoluzione il clero sciita si è diviso e una parte considerava l’imposizione un errore che si sarebbe ritorto contro la Repubblica degli ayatollah. Giuristi e teologi come Mohammad Beheshti e Mahmoud Taleghani erano contrari, all’inizio la regola di nascondere i capelli delle donne non era centrale nel piano dei rivoluzionari e la prima vera legge che impone l’obbligo del velo è soltanto del 1983, quattro anni dopo la cacciata dello scià. Ma nel 1983 Pezeshkian costringeva le sue studentesse a coprirsi la testa già da anni.
Il nuovo presidente è un uomo religioso e si proclama un cittadino fedele alla Repubblica islamica, anche se nel gesto di un ministro che vuole toccare con le proprie mani e vedere coi propri occhi il cadavere di una fotoreporter morta in cella c’era, già vent’anni fa, una mancanza di fiducia nel sistema che lo circonda e a cui appartiene.

 

“Pezeshkian è un leader diverso da buona parte dell’élite riformista erudita, col turbante, che abita le ville di Teheran nord”, dice Adnan Tabatabai, analista iraniano fondatore del centro di ricerca Carpo. Per ostentare umiltà non indossa l’abito ma sempre giacche sportive in cotone aperte sulla polo o sulla camicia sdrucita. “La sua campagna è stata tutta concentrata sulla politica interna e il cuore della sua promessa elettorale è la lotta alle diseguaglianze: ridurre il divario tra i poveri e i ricchi, tra la maggioranza persiana e le minoranze religiose ed etniche, tra gli uomini e le donne”. Una proposta politica su cui il Parlamento dominato dai conservatori ha già promesso di fare la guerra al nuovo governo. Pezeshkian sostiene di aver cambiato linea rispetto agli anni in cui arrivava in anticipo su Khomeini nell’imporre restrizioni alle ragazze e oggi dice che bisogna cominciare “fin dagli asili a insegnare la parità tra maschi e femmine”, perché “la giustizia di genere non migliorerà soltanto la condizione delle donne ma quella dell’Iran”. Pezeshkian, il primo presidente riformista dal 2001, sa che, nel paese che da oggi governa, la parola finale su qualsiasi decisione importante non spetta a lui.

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