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Venezuela in fiamme. Proteste e repressione dopo la vittoria di Maduro

Due morti e oltre 150 arresti nelle manifestazioni contro il risultato elettorale. In tutta Caracas e nei bastioni del regime l'ira popolare abbatte statue di Chávez. L'opposizione reclama la vittoria di González Urrutia

Maurizio Stefanini

Almeno due persone sono morte in Venezuela nelle proteste che si sono subito accese dopo che il Consiglio nazionale elettorale ha proclamato la vittoria di Nicolás Maduro. La prima vittima è stata registrata presso l'Ospedale Clinico di Maracay, nello Stato di Aragua. Lo stesso ospedale ha inoltre diffuso i nomi di altre 18 persone rimaste colpite durante le proteste e ha chiesto la collaborazione dei cittadini che dispongono di risorse per prendersi cura delle vittime. Successivamente, la ong Foro Penal ha comunicato la morte di una seconda persona e 46 arresti nello stato di Yaracuy, nell'ovest del paese. Ma in tutto il Venezuela gli arresti sarebbero almeno 150. Quattro feriti sarebbero stati a Barquisimeto, nell'ovest.

 

Il suono delle casseruole, tradizionale simbolo di protesta in America Latina, è inizato da Petare: grande quartiere popolare di Caracas che è il più grande di tutta l'America Latina, e che per molti anni è stato una roccaforte chavista. “¡Y va a caer, y va a caer, este gobierno va a caer!”, è pure un ritornello tradizionale delle proteste latino-americane che è risuonato, assieme a “¡Que entregue el poder ya!”. “Cadrà cadrà, questo governo cadrà!” e “Consegni il potere ora!”. Ma subito si è esteso ad altri quartieri e in tutto il paese, e sia nell'est che nel sud di Caracas la polizia è intervenuta con i lacrimogeni. Sempre a Caracas, a circa quattro isolati dal presidenziale Palazzo Miraflores, uomini mascherati, vestiti con abiti civili e armati, hanno bloccato la strada a un gruppo di manifestanti, tra cui donne e uomini, che, a circa 200 metri di distanza, gridavano “libertà, libertà!”.

 

In ex-bastioni del chavismo come La Guaira, Falcón e Guárico l'ira popolare se l'è presa con le statue di Hugo Chávez. Sui social network sono girate sia immagini delle statue che venivano abbattute, sia quelle di motociclisti che correvano trascinando in terra le teste delle statue decapitate.

  

Per ora queste proteste sono spontanee e non convocate dall'opposizione, che invita a mantenere a calma. È invece il regime che chiede una grande marcia verso il palazzo presidenziale di Miraflores per “difendere la pace”. María Corina Machado si concentra piuttosto sul dire che può provare la vittoria, e che l'opposizione ha già l'accesso al 73,23% dei verbali, da cui risulta un vantaggio schiacciante. “Il nostro presidente eletto è Edmundo González Urrutia”, ha ripetuto in conferenza stampa. Secondo questi dati, Maduro avrebbe ottenuto solo 2.759.256 voti contro i 6.275.182, di González Urrutia. La leader dell'opposizione ha spiegato che tutti questi verbali sono stati verificati, computati e digitalizzati, per essere pubblicati su un portale web “robusto” che “diversi leader mondiali stanno già consultando” e che sarà reso pubblico, in modo che tutti possano vedere le “prove della vittoria” di González Urrutia. Ha poi pubblicato su X un link per verificare i verbali. Il procuratore generale del regime Tarek William Saab ha risposto accusandola di hacking contro il sistema elettorale.

 

Intanto Maduro ha dato l'ordine di espulsione degli ambasciatori di Argentina, Cile, Costa Rica, Perú, Panamá, Repubblica Dominicana e Uruguay: tutti i Paesi che hanno considerato non credibile il risultato. La polizia starebbe ora tentando di entrare a forza nell'ambasciata argentina, dove ci sono oppositori rifugiati. Con Panama e Repubblica Dominicana sono stati anche sospesi i voti. I governi di sinistra di Brasile, Messico e Colombia, che senza definire espressamente il risultato “non credibile” hanno però chiesto una verifica seria, starebbero negoziando una dichiarazione congiunta. Lula continua a stare zitto ma fa trapelare di essere furibondo con Maduro, e sul tema dovrebbe parlare con Biden. In compenso, contraddicendo il ministro degli Esteri Albares e l'Alto Commissario Borrell, la vice-primo ministro spagnola Yolanda Díaz ha detto che riconosce il risultato.

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