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il personaggio

Chi era Haniyeh, il volto di Hamas

Micol Flammini

La militanza, le giornate a reggere il telefono di Yassin, la rivaltà con Sinwar. Ritratto del leader ucciso a Teheran che ha messo la maschera politica al gruppo della Striscia

Il 7 ottobre del 2023, Ismail Haniyeh stava pregando, al suo fianco, tra gli altri, c’era Saleh al Arouri, suo collaboratore, suo vice, un ponte tra Hamas, Hezbollah e l’Iran che curava le relazioni e i passi del sedicente asse della resistenza messo in piedi da Teheran. Al Arouri è stato eliminato a Beirut, a gennaio, mentre era in macchina nel sobborgo della capitale libanese Dahiyeh, quartier generale di Hezbollah. Ieri, alle due del mattino, ora iraniana, anche Haniyeh è stato eliminato, era andato a Teheran per assistere alla cerimonia di insediamento del presidente iraniano Masoud Pezeshkian. Haniyeh viveva in Qatar, a Doha, in un albergo di lusso, ma i suoi viaggi in Iran erano frequenti e anche ieri era stato accolto in modo caloroso  a Teheran, con un posto in prima fila durante l’insediamento e abbracci e baci con Pezeshkian. Di Hamas, Haniyeh era il volto in movimento – si spostava tra la Turchia, il Qatar e l’Iran – curava tutti gli affari, un contabile esperto.  Era la voce che esprimeva la linea che in realtà dentro il gruppo della Striscia è sempre soggetta al principio dello ‘iijmae, il consenso: tutti i leader prendono una decisione insieme, tutti obbediscono, anche chi dissente. Era lui che si muoveva assieme al suo predecessore Khaled Meshaal per negoziare su un accordo per il cessate il fuoco a Gaza. Era ritenuto pragmatico, più incline al compromesso rispetto ai leader combattenti come Yahya Sinwar. Era pronto ad accordi politici pur di tornare a governare Gaza, era disposto a colloquiare con Fatah, il partito che Hamas aveva cacciato dalla Striscia dal 2007 e che è responsabile dell’Autorità nazionale palestinese. 

 

Haniyeh ha contribuito a rafforzare la capacità di combattimento di Hamas e a espandere i suoi contatti nell’area, soprattutto con l’Iran, per costruire quell’infrastruttura di nemici di Israele in grado di unire le forze e accerchiare lo stato ebraico: è l’“anello di fuoco”, come lo chiama Teheran. Di quel fuoco Hamas è diventata una fiamma ardente, ma c’è un’incomprensione di fondo: tutti devono ardere per il progetto incendiario dell’Iran, ma l’Iran non si infiamma per gli altri. 

 

Dopo il 7 ottobre, Haniyeh ha visitato più volte la leadership iraniana e durante un incontro, la Guida suprema Ali Khamenei avrebbe detto a Haniyeh che Teheran non sarebbe entrata in guerra direttamente a sostegno di Hamas. Haniyeh, dopo l’incontro con Khamenei, riprese i suoi viaggi. Consapevole che senza una guerra totale Hamas non avrebbe mai vinto a Gaza, con il suo predecessore Meshaal continuò a girare per la regione, si recò spesso in Egitto per negoziare la sopravvivenza politica del gruppo mentre Sinwar dentro la Striscia continuava, e continua, a preferire uno scontro totale fino alla fine. Haniyeh ha lasciato la Striscia nel 2017, passando la leadership e il comando dentro Gaza interamente nelle mani di Sinwar, un leader dalle idee molto diverse, un metodo di battaglia che non lascia spazio a compromessi. Tra la leadership di Hamas rimasta nella Striscia e quella uscita per non tornare più si è creata una spaccatura. I tempi in cui Haniyeh gridava che non era possibile sconfiggere i palestinesi, perché erano disposti a vivere mangiando “za’atar, erba e sale” pur di non “farsi piegare”, sono stati sostituiti da chi lo motteggiava stringendo i denti, con gli occhi pieni delle immagini del capo negli alberghi di Doha o sugli spalti degli stadi del Qatar con i figli schierati spalla a spalla con i miliardari qatarini. Sinwar nella Striscia alimentava un mito del movimento fatto di sacrificio, vita sotterranea nei tunnel, sabbia e poche parole, lontano Haniyeh mostrava il contrario, senza celare che l’organizzazione è una macchina milionaria. Nessuna contraddizione, sempre lo stesso Hamas, sono i prototipi di una leadership che si replica in molte figure simili tra di loro. Sinwar è come si vende il movimento, resistenza e sacrificio, è il mito. Haniyeh era quello che faceva in modo che Hamas funzionasse. 

 

Haniyeh aveva iniziato ad avvicinarsi alla prima Intifada palestinese già da studente, quando frequentava l’Università islamica di Gaza City. Nel 1987 fu arrestato, poi liberato, proseguì la sua attività e divenne uno dei collaboratori più stretti di Ahmed Yassin, il fondatore del Mujama al Islami, il gruppo da cui poi scaturì Hamas. Yassin era stato arrestato dagli israeliani,  venne liberato in seguito a uno scambio di prigionieri dopo l’accordo  che implicò la scarcerazione di oltre mille palestinese per il ritorno di tre israeliani.  Una volta tornato nella Striscia, Yassin iniziò a coltivare la nuova generazione che poi avrebbe costituito la leadership di Hamas: predicava da una moschea al centro di Gaza, accorrevano ad ascoltarlo religiosi e no, parlava del progetto di eliminare ebrei e  a pendere dalle sue parole c’erano spesso due ragazzi, Haniyeh e Sinwar. Il primo divenne il suo braccio destro, il secondo divenne il suo delfino. Nel 1989 Yassin e Sinwar vennero arrestati insieme, agli agenti israeliani dello Shabak che lo interrogavano non smetteva di parlare del giovane che aveva capito pienamente il suo messaggio ed era in grado di rinnovarlo con forza e voracità. In Sinwar vedeva l’idea, in Haniyeh però Yassin vedeva il volto di Hamas e i due condividevano anche le origini: venivano da al Jura, non lontano da Ashkelon, nel sud di Israele. Haniyeh divenne un segretario per Yassin, ormai vecchio e paralizzato aveva bisogno del ragazzo per tutto: Haniyeh andava tutti i giorni a casa del suo ispiratore, gli reggeva il telefono durante le telefonate, ascoltava ogni parola e scampò all’attentato del 2004, quando Israele eliminò Yassin. 

 

Yassin aveva capito che Sinwar avrebbe proseguito la lotta armata e Haniyeh avrebbe dato a Hamas quell’infrastruttura che gli permise di fingersi un movimento politico. Ne avevano parlato anche quando Yassin era in vita, Haniyeh sosteneva che fare di Hamas un partito politico gli avrebbe dato maggiore peso. Soltanto dopo la morte di Yassin, però, Hamas entrò in politica, si mise la maschera, partecipò e vinse le elezioni del 2006 e l’anno dopo cacciò Fatah. Haniyeh aveva ragione, fu il momento in cui Hamas illuse tutti, in cui si formò la concezione che mise Israele nella condizione di non percepire più Gaza come un pericolo. 

 

Per non illudersi, sarebbe bastato leggere tra le righe, tra le dichiarazioni di Haniyeh che non ha mai smesso di dire che la “resistenza” di Hamas sarebbe andata avanti con ogni mezzo – “popolare, politico, diplomatico, militare” – e il suo statuto ha continuato a dichiarare la volontà di eliminare Israele.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)