Da Beirut a Teheran, Israele mette in atto la sua operazione in stile “Ira di Dio”
Lo stato ebraico si prepara per la reazione dell’Iran e di Hezbollah. Della leadership di Hamas ne sono stati eliminati quattro su sei, ma Gaza non è più il centro del conflitto. La deterrenza, le scelte, le vendette
Sono trascorsi trecento giorni dal 7 ottobre, e Israele ha eliminato l’uomo che negli ultimi venti anni ha mosso gli affari economici e diplomatici di Hamas. Ismail Haniyeh, appariscente leader del gruppo, è stato ucciso a Teheran, a notte fonda, dopo aver partecipato alla cerimonia di insediamento del presidente Masoud Pezeshkian. Meno di dieci ore prima, Israele aveva eliminato a Beirut, in Libano, uno degli uomini più importanti di Hezbollah, il gruppo di miliziani sciiti che ogni giorno lancia razzi, missili e droni contro il territorio dello stato ebraico. Durante l’attacco a Beirut, è stato ucciso Fuad Shukr: nessuna operazione militare di Hezbollah si muoveva senza il suo consenso, era uno dei consiglieri di Hassan Nasrallah, ma mentre il leader di Hezbollah vive in un bunker per paura di essere colpito da Israele, Shukr aveva compiti operativi, era più esposto, era sul campo. Israele ha ammesso di aver eliminato il miliziano libanese, ma tace su Haniyeh, sono due omicidi molto diversi. Il primo è una risposta diretta, dura e limitata all’attacco che Israele ha subìto la scorsa settimana contro la cittadina drusa sulle alture del Golan, Majdal Shams, dove sono stati uccisi dodici ragazzini e ha un valore pratico, immediato: Shukr comandava ogni attacco, conosceva tutta la struttura di Hezbollah, senza di lui per il gruppo si crea un problema di catena di comando, un vuoto. Il secondo invece ha un valore simbolico, Haniyeh è un volto, una voce, ma non un ingranaggio della macchina operativa di Hamas, le sue missioni verranno presto assunte da qualcun altro, forse c’è già un nome, Khaled Meshaal, che prima di lui era stato il capo dell’ufficio politico di Hamas, come lui vive a Doha in una residenza di lusso e insieme a lui si spostava tra il Qatar, la Turchia e l’Iran. La morte di Haniyeh non fermerà neppure i colloqui con Hamas: si spostava da un paese all’altro, interagiva con gli egiziani per trovare un compromesso con Fatah in Cisgiordania, parlava con i qatarini per definire le risposte da dare a Israele, per calibrare con quale pesantezza comunicare i “no” che finora sono stati pronunciati da Hamas, ma questi “no” venivano decisi tutti da dentro la Striscia, che Haniyeh aveva lasciato dal 2017.
In questi trecento giorni di guerra Israele ha dovuto trovare la strategia per riportare a casa i suoi ostaggi e ristabilire la sua deterrenza. Sono due obiettivi che sembrano andare in direzioni opposte, che non si guardano, che si allontanano l’uno dall’altro, e anche se la scelta non è stata comunicata a voce alta, Israele ragiona come se non potesse rivedere vivi tutti gli israeliani rapiti da Hamas, ma deve proteggere quelli che potrebbero essere rapiti in futuro. Sono calcoli brutali di sopravvivenza, la piazza israeliana che tutti i giorni manifesta per le strade di Tel Aviv chiedendo di liberare gli ostaggi non li può accettare, ma è la scelta inevitabile di una nazione che ha capito che la guerra a Gaza è una minima parte di un conflitto più grande. I segnali arrivano da ogni lato, dal Libano armato fino ai denti con l’arsenale di Hezbollah riempito di armi di fabbricazione iraniana; dallo Yemen dove gli houthi hanno droni capaci di arrivare fino a Tel Aviv; dalla Cisgiordania in cui Hamas cerca di imporre il suo statuto; dalle milizie in Siria e in Iraq che, come gli altri, rispondono ai piani di Teheran.
Gaza non è più il centro di tutto, è una parte, a Teheran e a Beirut il futuro di Israele è più a rischio. Lo stato ebraico ha iniziato una maratona, molto lunga, e, secondo il generale Amos Yadlin, arriverà fino in fondo soltanto se risponderà alla coalizione di nemici creata dall’Iran con una controcoalizione di amici, le cui premesse si sono viste la notte fra il 13 e il 14 aprile, quando l’esercito israeliano ha difeso il suo territorio dal massiccio attacco iraniano con gli americani, i francesi e i britannici al suo fianco e una collaborazione sottotraccia di giordani e sauditi. Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ieri ha tenuto un discorso alla nazione, non si è assunto la responsabilità dell’attacco a Teheran, ha avvisato i suoi cittadini che i prossimi giorni saranno duri, rischiosi, ma chiunque attacchi lo stato ebraico dovrà attendersi una risposta. Il rischio di una guerra più ampia è nelle mani di Hezbollah e dell’Iran, che più che per Haniyeh, un sunnita che non è considerato uno dei loro, attaccheranno per vendicare Shukr e per l’ardire di un attacco sul territorio iraniano.
Dopo l’assassinio di undici atleti a Monaco nel 1972, Israele rispose con un’operazione che venne chiamata “Ira di Dio”, durò decenni, e gli agenti del Mossad e dello Shabak andarono a cercare i membri dell’organizzazione terroristica Settembre nero ovunque per il mondo. Sette anni dopo, venne eliminata anche la mente dell’attentato, Ali Hasan Salama, detto il Principe rosso. Era il più accanito, parlava poco, sapeva nascondersi, ma venne rintracciato a Beirut mentre era in macchina, ormai ingrassato, infiacchito dagli agi e dall’amore per la sua bellissima moglie. Per rispondere al 7 ottobre, Israele ha deciso di ispirarsi all’operazione “Ira di Dio”, ha promesso di colpire ogni membro di Hamas ovunque. Dei sei leader del gruppo ne sono stati già eliminati quattro: Haniyeh, Marwan Issa e funzionari israeliani dicono persino Mohammed Deif. Rimangono Meshaal e Yahya Sinwar, il principe nel tunnel.