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Le proteste in Venezuela e le possibili pressioni sul regime per una “transizione pacifica”

Maurizio Stefanini

La risposta repressiva di Maduro contro le proteste dei cittadini. Il governo non ha ancora adempiuto all’impegno preso il 18 aprile 2013 in sede di Unasur per effettuare un ricontrollo del 100 per cento dei verbali del voto di quattro giorni prima

Aveva minacciato un “bagno di sangue” Nicolás Maduro, se non fosse stato confermato. Il bilancio è già di almeno sei morti, decine di feriti e 749 arresti durante le  proteste che si sono accese in Venezuela dopo che il Consiglio nazionale elettorale (Cne) ha proclamato vincitore Maduro con dati duramente contestati, e in cui almeno quattro statue di Hugo Chávez sono state abbattute e decapitate. La cifra dei detenuti l’ha data il procuratore generale Tarek William Saab, secondo cui le imputazioni sarebbero per “alterazione dell’ordine pubblico, istigazione all’odio e terrorismo”. Non si sa se nel computo ci sia  anche Freddy Superlano, coordinatore politico del partito di opposizione Volontà Popolare. Non stava partecipando a manifestazioni, ma è stato caricato a forza in un veicolo da alcuni funzionari vestiti di nero.

Nella risposta repressiva c’è anche il blocco da parte del regime del sito web in cui l’opposizione aveva messo online quel 73,23 per cento di verbali in suo possesso e da cui risulta che Maduro avrebbe ottenuto solo 2.759.256 voti contro i 6.275.182 di Edmundo González Urrutia. Ma il sito era già collassato per la gran quantità di accessi. Anche l’Organizzazione degli stati americani (Osa) fa proprie le critiche, con un rapporto in cui accusa il regime di Maduro di avere perpetrato la “manipolazione più aberrante”, ricordando peraltro che il governo venezuelano non ha ancora adempiuto all’impegno preso il 18 aprile 2013 in sede di Unasur per effettuare un ricontrollo del 100 per cento dei verbali del voto di quattro giorni prima. Sottolineando che i verbali sono stati ora presentati dall’opposizione e non dal governo, l’Osa dice dunque che a questo punto o Maduro accetta la sua sconfitta, o si fanno nuove elezioni  ma con missioni dell’Unione europea e dell’Osa e con un nuovo Cne. Verbali a parte, l’Osa ricorda almeno almeno dieci punti che rendono i risultati proclamati non credibili.

In qualche modo l’Osa ha anticipato le conclusioni che potrebbero arrivare dal riconteggio  che è stato richiesto con insistenza dall’Ue, dagli Stati Uniti e anche da tre paesi latino-americani con governi di sinistra come Brasile, Messico e Colombia –  una posizione con forma diversa rispetto alla condanna netta espressa dai nove paesi con cui in risposta Maduro ha subito rotto le relazioni, a partire dal Cile di Boric e dall’Argentina di Milei, ma il cui obiettivo è lo stesso. Si attende dunque con interesse il comunicato congiunto che Brasile, Messico e Colombia starebbero stilando, e che vorrebbe offrire a Maduro una via di uscita. La posizione del Brasile in particolare è piuttosto complessa, tra il partito di Lula che si schiera con Maduro; il suo governo con il ministro degli Esteri che chiede appunto la verifica; Lula stesso che dopo essersi duramente beccato con il presidente venezuelano sta ora zitto, ma fa trapelare la sua irritazione. Il suo consigliere, Celso Amorim, starebbe cercando una mediazione in cui dovrebbero esserci sia garanzie personali per gli esponenti del regime,  sia una cogestione del potere tra il nuovo presidente e una Assemblea nazionale a maggioranza chavista.

In effetti la leader dell’opposizione, Maria Corina Machado, ha  fatto sapere di essere stata contattata da una quantità di dirigenti chavisti interessati a collaborare per una transizione pacifica. Sarebbe ovviamente importante un ruolo delle Forze armate: sia per fare pressione  su Maduro, sia per consentire  garanzie. Sono però militari una gran parte dei 300 prigionieri politici, a riprova del modo in cui il regime su questo fronte eserciti una sorveglianza feroce. C’è poi da ricordare il precedente del generale Raúl Isaías Baduel, cui Chávez avrebbe dovuto essere grato per averlo riportato al potere nel 2002 dopo il “golpe de calle” che aveva portato ai due giorni di presidenza di Pedro Carmona Estanga. Da ministro della Difesa, però, nel 2007 lo costrinse ad accettare la sconfitta in un referendum. Di lì a poco cadde in disgrazia, fu  imprigionato nel 2009, e morì in carcere nel 2021. Allo stesso modo ci sono  le disgrazie in cui sono caduti i due già onnipotenti  gestori della cassaforte petrolifera Pdvsa, Rafael Ramírez e Tareck El Aissami: uno costretto in esilio, l’altro in galera, accusati di aver rubato miliardi.

L’unico altro personaggio che potrebbe in teoria distanziarsi da Maduro o fargli pressione è il ministro della Difesa, Vladimir Padrino López. Effettivamente, alcune sue ambigue dichiarazioni mentre  si aspettavano i risultati avrebbero potuto anche essere interpretate come un’apertura a un presidente diverso da Maduro. Per il momento, però, si è mobilitato contro le proteste, proclamando che sarebbe in corso un “colpo di stato architettato dai fascisti appoggiati dall’imperialismo”.