(foto EPA)

l'editoriale del direttore

La fine di Haniyeh ci ricorda che differenza c'è tra i complici degli ayatollah e i nemici del terrorismo

Claudio Cerasa

A tutti gli osservatori che commemoreranno Haniyeh per essere stato un “moderato” andrebbe ricordato che, oltre a essere stato responsabile dell’omicidio di innumerevoli israeliani, è colui che dopo il 7 ottobre ha teorizzato il “martirio” nei confronti del nemico sionista. Per questo andrebbe ricordato per quello che è: il Bin Laden di Hamas

Chi considera il terrorismo islamista come una minaccia per le società aperte, chi considera gli ideologi del terrorismo islamista un pericolo per la nostra libertà, chi considera i sostenitori, i finanziatori, i complici e i difensori dei terroristi islamisti come una sciagura per il nostro mondo, per le nostre vite, per il nostro futuro, di fronte all’uccisione del capo di Hamas, Ismail Haniyeh, non può che aver avuto tre reazioni simili alle nostre. La prima reazione, istintiva, è quella che porta a evitare ogni tipo di festeggiamento per la morte di una persona, chiunque essa sia, per quanto questa possa essere brutale, e in un mondo perfetto sarebbe stato preferibile vedere Ismail Haniyeh non sotto terra ma dentro a una prigione, a scontare la sua pena, giudicato dalla storia e dalle corti internazionali. La seconda reazione, anch’essa istintiva, è provare a ragionare su cosa abbia rappresentato, nel mondo del terrorismo islamista, Ismail Haniyeh. E se si considera il 7 ottobre, per Israele, come l’equivalente di ciò che è stato l’11 settembre per gli Stati Uniti, e per l’occidente, e se si ricorda che l’attacco di Hamas di dieci mesi fa è stato proporzionalmente venti volte maggiore rispetto all’11 settembre, per il numero di persone morte sul totale della popolazione del paese, non si farà fatica a considerare Ismail Haniyeh, che del 7 ottobre è stato uno degli ideologi, per quello che è: il Bin Laden di Hamas.

 

A tutti gli osservatori che oggi commemoreranno Haniyeh per essere stato, all’interno di Hamas, un “moderato”, un “dialogante”, andrebbe semplicemente ricordato che Haniyeh – oltre a essere stato responsabile dell’omicidio di innumerevoli israeliani, e per questo protetto, si fa per dire, dall’Iran degli ayatollah, che ieri lo hanno ricordato come un eroe, un martire – è colui che dopo il 7 ottobre ha teorizzato il “martirio” nei confronti del nemico sionista, arrivando a giustificare l’utilizzo dei civili palestinesi come scudi umani con le seguenti parole: il popolo palestinese, ha detto, “ha bisogno del sangue delle donne, dei bambini e degli anziani di Gaza affinché risvegli in noi lo spirito di risolutezza, lo spirito della rivoluzione”.

 

Nel 2011, il giorno dopo la neutralizzazione di Bin Laden, l’allora segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, disse che la morte del leader di al Qaida fu “un momento spartiacque nella nostra comune lotta globale contro il terrorismo”, disse che i crimini di al Qaida avevano toccato “la maggior parte dei continenti, causando tragedie e perdite di vite umane a migliaia di uomini, donne e bambini”, disse di essere “personalmente molto sollevato dalla notizia che è stata fatta giustizia a un tale genio del terrorismo internazionale” e disse infine di voler “elogiare il lavoro e l’impegno determinato e basato sui princìpi di molte persone nel mondo che hanno lottato per sradicare il terrorismo internazionale”, perché compito delle Nazioni Unite è “combattere contro il terrorismo e guidare questa campagna per combattere contro il terrorismo”.

Chi considera dunque il terrorismo islamista come una minaccia per le società aperte – e chi si  rallegra per il fatto che, reazione numero tre, un paese che finanzia il terrorismo, come l’Iran, mostri le sue vulnerabilità – oggi non può far altro che augurarsi che le Nazioni Unite ripetano quanto detto da Ban Ki-moon nel 2011 e non può far altro che augurarsi che i pacifisti di tutto il mondo non abbiano dubbi su chi sia più incline a difendere la nostra libertà tra gli amici dell’ayatollah Khamenei e i nemici del terrorismo islamista.

Di più su questi argomenti:
  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.