Il presidente del Venezuela Nicolas Maduro (AP Photo/Matias Delacroix)

Imbroglio Maduro

Tanto grande quanto goffa. Perché quella in Venezuela è la madre di tutte le frodi elettorali

Luciano Capone

Guardando le percentuali, i conti non tornano. Il sospetto? Che il regime abbia deciso a tavolino le quote da attribuire ai candidati

La storia del Sudamerica è lastricata di elezioni con irregolarità, ma quello che sta succedendo in questi giorni in Venezuela è un caso eccezionale: ha tutte le caratteristiche per essere considerata la madre di tutte le frodi elettorali. Persino più clamorosa di quella, sempre in Venezuela, delle elezioni del 2017, quando il regime di Maduro – per svuotare i poteri dell’Assemblea nazionale controllata dall’opposizione – mise in piedi un’Assemblea costituente gonfiando a dismisura i risultati elettorali. Tanto che il ceo di Smartmatic, la società che da anni gestiva il voto elettronico in Venezuela, dichiarò: “Sappiamo, senza alcun dubbio, che il risultato è stato manipolato. La differenza tra la partecipazione effettiva e quella annunciata dalle autorità è di almeno 1 milione di voti”.

Stavolta è stato fatto tutto più in grande. Al momento gli unici dati noti, che sono bastati ad attribuire la vittoria al presidente in carica, sono quelli parziali, con uno scrutinio all’80 per cento, comunicati dal Consiglio nazionale elettorale. Il Cne attribuisce il 51,2 per cento a Nicolás Maduro, il 44 per cento al vero candidato dell’opposizione Edmundo González e il 4,6 per cento agli altri otto candidati tutti insieme (senza i dettagli per ognuno). Ma la cosa surreale è che le percentuali sono rotonde fino al quinto decimale. Una combinazione con una probabilità su 100 milioni, o forse più. In pratica, a Maduro è stato attribuito il 51.20000 per cento, a González il 44,20000 per cento e a tutti gli altri insieme il 4,60000 per cento. Il sospetto – vista la quasi impossibilità di un esito del genere – è che il regime abbia deciso a tavolino le quote da attribuire e da queste ricavato i voti assoluti. E il sospetto si fa certezza dato che, a distanza di tre giorni, il Cne non ha pubblicato i risultati ufficiali, né quelli complessivi né soprattutto quelli di dettaglio. Insomma, una rapina a mano armata e a volto scoperto. Paradossalmente, i dati ufficiali sono stati pubblicati dalle opposizioni, che in un paio di giorni hanno messo su un sito i verbali digitalizzati seggio per seggio, che mostrano un distacco di oltre 35 punti a favore di Edmundo González. In Venezuela alla fine delle votazioni, in ogni seggio, oltre a essere comunicati elettronicamente al sistema centrale, i risultati vengono stampati da una macchina su un foglio di carta: una specie di scontrino con l’esito del voto, un codice univoco e le firme dei vari rappresentanti di lista. Con un grande sforzo organizzativo, prevedendo evidentemente la truffa del regime, l’opposizione ha raccolto quasi tutti questi documenti, li ha scannerizzati e li ha resi pubblici. Ciò che avrebbero dovuto fare le istituzioni, che invece non rispondono alla richiesta della comunità internazionale – eccetto le dittature alleate con il regime, come Russia, Cina o Iran – di mostrare i documenti.

Il regime sostiene che i ritardi sono dovuti a un attacco hacker  organizzato da Maria Corina Machado, la vera leader dell’opposizione. La giustificazione della frode è anche quella per arrestare la donna che ha trascinato la campagna elettorale di González (il Costa Rica ha offerto asilo politico a  Machado che però ha rifiutato). La realtà è che a credere in buona fede al regime di Maduro non c’è rimasto più nessuno. La mazzata finale è arrivata dal Centro Carter, la ong fondata dall’ex presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter che negli anni ha sempre certificato la bontà del sistema elettorale venezuelano, nonostante gli evidenti limiti. Un’organizzazione benvoluta dal regime, non a caso tra le poche accettate per osservare le elezioni. Stavolta, di fronte all’evidenza delle manipolazioni, il Centro Carter prima ha fatto andare via dal Venezuela tutto il suo personale invitando il governo a pubblicare i dati seggio per seggio. Poi, ieri, ha espresso un giudizio tombale: “Le elezioni presidenziali del 2024 in Venezuela non hanno rispettato gli standard internazionali di integrità elettorale e non possono essere considerate democratiche”. Il Carter Center  elenca una sfilza di violazioni che hanno caratterizzato tutto il processo elettorale, in ogni sua fase. La comunità internazionale, inclusi paesi molto vicini a Maduro, come  la Colombia guidata da Gustavo Petro, chiede il rispetto del voto e trasparenza nel conteggio. Ma è evidente a tutti che non è più questo il problema, dato che il regime è passato alla fase successiva: la repressione, con decine di arresti di manifestanti e oppositori, assediando anche l’ambasciata argentina dove si sono rifugiati alcuni collaboratori di Machado. Come ha sintetizzato Garry Kasparov, il campione di scacchi dissidente prima dell’Urss e poi di Putin: “All’inizio conta chi ha i voti. Poi conta chi conta i voti. Infine conta chi ha le armi”.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali