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L'esilio scomodo e rischioso degli eroi russi

Micol Flammini

Putin ha espulso Kara-Murza, Yashin e gli altri, pensa di avergli teso una trappola, ma loro sanno che non è il momento di sprecare il sacrificio di tanti. La loro libertà inaspettata non è un lusso, ora è una responsabilità

Vladimir Kara-Murza ha un’idea chiara del futuro della Russia e quando era tornato dopo il 24 febbraio del 2022 a Mosca, la sua casa e allo stesso tempo per lui il posto più pericoloso al mondo, sapeva che la possibilità che venisse arrestato era alta in modo estremo. Era tornato perché la Russia che ha in mente non è un paese  che si  una guerra fuori dal mondo e dalla storia. Per questo, aveva deciso di mettere a rischio la sua vita, lasciare gli Stati Uniti e la famiglia e andare verso l’ignoto, sapendo che seppur in carcere, la sua presenza in Russia sarebbe stata più pesante rispetto alla sua libertà fuori dalla Russia. Come aveva fatto Alexei Navalny, Kara-Murza era pronto a sacrificarsi per il futuro del suo paese. 


Appena arrivato, Kara-Murza venne arrestato e mandato in una colonia penale. Il dissidente ora è libero, insieme ad altri russi che hanno avuto lo stesso ardire di sfidare Vladimir Putin, che dal canto suo li ha mandati lontani, gli ha affibbiato l’etichetta dei traditori che vale per tutti coloro che collaborano con il nemico più grande: gli Stati Uniti. Kara-Murza è in esilio, parlando al telefono con la sua famiglia ha detto di sentirsi ancora nella colonia penale, di non poterci credere, ha confessato che era sicuro sarebbe morto. Kara-Murza è vivo, è in piedi nonostante i suoi problemi di salute e, appena arrivato in Germania, a Bonn, ha organizzato una conferenza stampa al fianco di Ilja Yashin e Andrei Pivovarov, anche loro  liberati dalle prigioni di Putin durante lo scambio epocale organizzato dagli Stati Uniti. I dissidenti non smettevano di sottolineare quanto la libertà sembrasse “surreale” per loro che fino a due giorni prima erano isolati dal mondo, chiusi in una stanza lontana della Siberia. 


Putin adesso, firmando il loro perdono da reati che non avevano commesso, li ha mandati in un esilio scomodo e rischioso. Potrà incrementare la propaganda scontata per la quale chi è fuori è un traditore, Yashin ha detto di essere stato espulso contro la sua volontà, ma  Kara-Murza ha sottolineato che la lotta per la Russia, ora, si fa con le parole, cercando le alternative, muovendosi, non dietro le sbarre: questo messaggio ora dovrà arrivare al popolo russo. Il rischio per la vita di questi dissidenti è rimasto. Kara-Murza è sopravvissuto a due tentativi di omicidio e alla prigione, ora che è fuori la sicurezza non è scontata e Putin lo ha fatto capire con il tappeto rosso steso per accogliere chi tornava in Russia dalle prigioni occidentali, soprattutto Vadim Krasikov, il suo sicario incriminato per aver compiuto un omicidio  in pieno giorno a Berlino. Nel 2019 Putin disse di non sapere chi fosse, per lui però si è battuto fino all’ultimo, lo ha abbracciato appena è sceso, per primo, dall’aereo: è il suo uomo, per il Cremlino è il simbolo di questo scambio e la sua liberazione vuol dire che Mosca non smetterà di cercare fuori chi dissente. 


Kara-Murza e gli altri però hanno un progetto e continua a essere eroico, sanno quanto è costata la loro liberazione, sanno che la morte di Alexei Navalny ha permesso agli Stati Uniti di liberare più persone, sanno il dilemma etico che ha dovuto affrontare la Germania per scarcerare Krasikov, e non intendono sprecare questi sacrifici. Appena l’aereo che stava portando Kara-Murza via dalla Russia è decollato dall’aeroporto di Vnukovo, un agente del Fsb gli si è avvicinato e gli ha detto: “Guarda laggiù, guarda la tua patria per l’ultima volta”. Il dissidente gli ha risposto: “Sono uno storico, so per certo che tornerò in Russia. Torneremo tutti e arriverà il giorno in cui la Russia sarà un paese libero, normale, civile. Io so che arriverà”. 


Gli eroi in esilio vedono la loro liberazione non come un lusso, o un colpo inaspettato di fortuna, ma come l’occasione che sarebbe un reato sprecare. 
Micol Flammini

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  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)