La liberazione degli ostaggi dalla Russia e la trasformazione dell'intelligence

Giulia Pompili

Nello scontro fra grandi potenze, i negoziatori non sono più i diplomatici, ma le spie. E il canale di Burns si applica anche alla Repubblica popolare cinese

L’abbraccio fra Evan Gershkovich e sua madre Ella, appena il giornalista del Wall Street Journal è sceso dall’aereo che lo ha riportato dalla Turchia all’America, è un’immagine di libertà che resterà nella storia. Così come le parole di un altro americano atterrato ieri notte da uomo libero nel paese, l’ex marine Paul Whelan, dopo più di duemila giorni in un carcere russo:  “Questo è il modo in cui Putin governa il suo paese. Sì, sono contento di essere tornato a casa. E no, non ci tornerò mai più”. Dei sedici prigionieri in Russia di cui l’Amministrazione Biden ha ottenuto il rilascio, i tre americani sono arrivati a notte fonda nella base militare di Andrews, nel Maryland, e ad aspettarli c’erano Biden e la sua vice, Kamala Harris.

     

Con Gershkovich e Whelan c’era anche Alsu Kurmasheva, giornalista tatara di Radio Free Europe con doppia cittadinanza russa e americana, arrestata a Kazan il 18 ottobre del 2023 con accuse vaghe e pretestuose – come quelle sollevate contro tutti gli altri. Ieri sera, mentre correva incontro alle sue due figlie,  Kurmasheva, in felpa blu e occhiali da vista, finalmente sorrideva e il suo volto era completamente diverso da quello algido e austero che avevamo imparato a conoscere nelle aule dei tribunali russi. Gli ostaggi si distinguono subito dai prigionieri: la Russia, come la maggior parte dei paesi autoritari, usa le leggi sulla sicurezza nazionale in modo arbitrario e utile al suo interesse. La liberazione in quel caso è reale, concreta, è una liberazione dall’ingiustizia e dalla paura, non è “l’ho fatta franca”. 

   
Per arrivare al risultato di ieri – che è costato molto al mondo libero, l’ha detto più volte Biden – il New York Times ha scritto ieri che la svolta è arrivata il 25 giugno scorso, in una riunione segreta fra funzionari della Cia e omologhi russi in una città non identificata in medio oriente. Il giorno dopo, c’è stata una  telefonata fra il direttore della Cia, Bill Burns, e il direttore dell’intelligence internazionale russo, Sergey Naryshkin. Sono stati loro due, di fatto, ad accelerare il processo dei negoziati. E Burns e Naryshkin si sentono  più spesso di quanto non facciano il segretario di stato americano Antony Blinken e il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov. C’è un motivo.  

    
In alcuni casi l’intelligence si sta lentamente sostituendo alla diplomazia, ed è una trasformazione voluta e agevolata da Biden, per affrontare le conseguenze di uno scontro tra potenze dove tutto va rivisto, anche i fondamentali delle relazioni internazionali. Secondo il Wall Street Journal, il Cremlino voleva evitare di parlare di “diplomazia degli ostaggi” con i funzionari del dipartimento di stato americano, ritenuti “troppo pretenziosi”. Ed è la verità: il diplomatico non riesce a prendere decisioni – anche eticamente profonde e pesanti come uno scambio di prigionieri – che invece la spia, per addestramento e capacità tattica e strategica, riesce a prendere. Si è parlato spesso sui giornali americani di come Burns sia un po’ il simbolo di questa trasformazione, che attinge a una logica del passato, all’epoca della Guerra fredda, ma che in realtà è  immersa nella contemporaneità. Perché a rappresentare la sfida contro l’occidente non è solo la Russia, oggi, ma anche l’Iran, la Corea del nord, la Cina. 

   
Ieri la fondazione Committee for Freedom in Hong Kong (Cfhk), in un comunicato, ha ricordato che “l’arresto di giornalisti da parte dei paesi autoritari è una tendenza crescente”, e dimostra come “i leader autoritari siano terrorizzati dalla stampa libera”.  Ma anche il numero di prigionieri politici nel mondo è in crescita: “Solo a Hong Kong”, scrive la fondazione, “ci sono più di 1.800 prigionieri politici”, tra cui un cittadino britannico, Jimmy Lai. La Repubblica popolare cinese, che ha usato gli arresti a strascico per sopprimere le proteste nell’ex colonia inglese, per ora ha usato solo una volta la tattica della cosiddetta diplomazia degli ostaggi con la comunità internazionale, usata invece di frequente, in passato, dalla Corea del nord e dall’Iran. L’ha fatto nel caso della detenzione dei due cittadini canadesi Michael Spavor e Michael Kovrig, liberati nel 2021 solo a seguito del rilascio della direttrice finanziaria di Huawei, Meng Wanzhou. I metodi d’intelligence cinesi sono ancora molto lontani da quelli russi: la mano del Partito comunista cinese, fuori dai confini della Repubblica popolare, si muove soprattutto attraverso i cittadini cinesi trasferiti all’estero, non per forza sotto copertura, che però hanno l’obbligo di comunicare informazioni a incaricati e funzionari. In alcuni casi, gli stessi vengono usati per la cosiddetta “Caccia alla volpe”, operazione multiforme che si serve dei cinesi all’estero per monitorare, controllare, reprimere (e costringere a tornare in Cina) concittadini scomodi per il Partito, come i dissidenti. L’intelligence internazionale – soprattutto in America, Canada e Australia – ha dovuto adattarsi ai nuovi metodi cinesi monitorando le attività di quelle che vengono definite “stazioni di polizia” virtuali cinesi. E sono già diverse le persone indagate per molestie e attività intimidatorie nei confronti di connazionali, per esempio in America. In Francia, il servizio d’intelligence nazionale a maggio ha diramato una nota in cui spiega che “in un mondo di spionaggio con poche regole, i servizi segreti cinesi stanno dimostrando una notevole mancanza di inibizione”, ha scritto il Monde.

 

Due i casi più eclatanti: il 22 marzo scorso alcuni cittadini cinesi hanno tentato il rimpatrio forzato di un connazionale dissidente, e l’8 maggio hanno provato a intimidire una donna uigura nel suo appartamento di Parigi. Secondo l’intelligence francese i cinesi agiscono pubblicamente, a differenza di “altri servizi stranieri – in particolare russi, turchi e ceceni – che in passato hanno tentato azioni simili cercando però di nascondere le proprie responsabilità”.

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.