In medio oriente

Perché eliminare Deif e Haniyeh non significa sabotare l'accordo per liberare gli ostaggi

Micol Flammini

Hamas sentirà di più l'assenza del capo militare, il leader ucciso a Teheran invece è facilmente sostituibile, ci sono già i nomi e gli attriti con Sinwar

Una bomba aspettava il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, da due mesi nella sua stanza a Teheran, nel complesso di Saadabad, un tempo possedimento dello Scià, oggi alloggio per gli ospiti d’onore dei pasdaran. L’ordigno, secondo il New York Times che ne ha dato notizia, era molto sofisticato e poteva essere telecomandato da remoto. Qualcuno ha introdotto la bomba, portandola nel cuore di un edificio in cui i pasdaran fanno avanti e indietro, e in attesa del momento giusto, qualcun altro, avvisato della presenza di Haniyeh, l’ha fatta esplodere. Israele, senza ammettere la responsabilità dell’uccisione, ha mandato due messaggi: uno a Hamas e l’altro all’Iran. Per Teheran la bomba tra le stanze del regime vuol dire che Israele è arrivato molto dentro agli affari iraniani, è presente ovunque, ha un occhio puntato con insistenza sugli spazi intimi della Repubblica islamica. Per Hamas, l’uccisione di Haniyeh è stata la conferma che quando Israele aveva promesso di colpire ovunque i suoi leader, aveva un piano e una lista. Di quella lista Haniyeh era tra i primi, era il  volto che Hamas si era scelto, ma  non era insostituibile. 


C’è una parte della leadership di Hamas che è visibile, un’altra che è invisibile, non si fa vedere, trascorre il tempo nei tunnel, non parla, è fatta di fantasmi pericolosi che non si preoccupano di interpretare personaggi fittizi, di mettersi maschere. Tra loro c’era Mohammed Deif, il gatto delle cui vite si era ormai perso il conto, fino al 13 luglio, quando due bombe colpirono  la villa di Rafah Salameh, capo delle brigate di Khan Younis, nell’area di al Mawasi, a Gaza. La conferma della morte di Deif è arrivata ieri, Hamas non ne ha dato nessun annuncio:  ha perso la sua mente e il suo braccio più armato. Deif era le due cose insieme, strategia e violenza, adesso nei tunnel sotto le sabbie di Gaza è rimasto soltanto Yahya Sinwar. 
La funzione di Deif, capo delle brigate al Qassam, nome ufficiale del corpo armato di Hamas, era operativa. La funzione di Haniyeh, leader di quello che viene definito Ufficio politico, era cosmetica, infatti circolano già i nomi sulla sua successione ed è Khaled Meshaal l’uomo che potrebbe prendere il suo posto. Dopo tutto, Meshaal era stato il capo politico prima di Haniyeh, conosce il lavoro, gli spostamenti, incontrava già i qatarini per parlare delle trattative per il cessate il fuoco a Gaza e il rilascio degli ostaggi.


Dopo il bombardamento in cui gli israeliani avevano puntato a Deif, Hamas aveva deciso di non ritirarsi dai negoziati con lo stato ebraico che avvengono con la mediazione di Qatar ed Egitto. Il gruppo aveva già il sospetto che il più potente e prezioso dei suoi uomini fosse sotto le macerie della villa di al Mawasi, ma andò avanti. Dopo la morte di Haniyeh, a maggior ragione, Hamas non ha motivo di fermare le trattative. Lo stato degli accordi è sempre lo stesso, fermo ma al lavoro, le porte non sono chiuse ma non si riesce a trovare un punto di compromesso. Il portavoce di Hamas, Khalil al Hayya, dopo l’uccisione di Haniyeh, aveva detto che non sarebbe cambiato nulla per i negoziati, e aveva aggiunto che il punto inamovibile era il rifiuto di Israele di ritirarsi dalla Striscia. Secondo Michael Milshtein, esperto di questioni palestinesi del Dayan Center, “questi eventi non cambieranno in modo drammatico la posizione di Hamas, i leader rimasti diranno che i negoziati sono sospesi magari per qualche giorno, ma andranno avanti”, non lo hanno mai fatto finora, non per Deif e non per Haniyeh. “Allo stesso tempo, le uccisioni non servono a mettere pressioni sui colloqui e non rendono l’accordo più vicino”. I negoziati sono allo stesso punto in cui trovavano prima, non avanti e non indietro, la distanza tra Israele e Hamas rimane enorme, ma “questi attacchi non l’hanno ingigantita”. Se sarà Meshaal a sostituire Haniyeh, è probabile invece che si allontaneranno le due leadership, quella interna alla Striscia e quella esterna, che pensano in modo univoco, hanno lo stesso progetto, ma si fidano l’una dell’altra con riserva. Yahya Sinwar e Khaled Meshaal sono figure opposte, il secondo è nato in Cisgiordania, ha lasciato Silwad, un villaggio non lontano da Ramallah, quando aveva sei anni e ha vissuto tra il Kuwait e il Qatar . Per chi è nato nella Striscia, come Sinwar che è nato a Khan Younis, la distanza è chilometrica, Meshaal è uno straniero che si è interessato a Gaza. Meshaal è stato anche il primo a portare la leadership fuori dalla Striscia, il primo a creare una cesura tra chi fuori faceva gli affari e chi dentro pensava alla guerra. Le due parti sono distanti, ma sono complementari, una vive negli alberghi di lusso di Doha e l’altra nei tunnel di Gaza, ma servono allo stesso principio, alla stessa battaglia contro Israele.  Finora i contatti tra le  leadership interna ed esterna sono stati regolari e le comunicazioni sui colloqui per arrivare a un accordo erano piuttosto artigianali: chi era fuori da Gaza (Haniyeh) parlava con i qatarini, un messaggero veniva mandato nella Striscia per  informare Sinwar, ne usciva con una risposta. Finora Sinwar ha sempre rifiutato ogni proposta di intesa, Haniyeh, che la comunicava a Doha, era d’accordo. 
 
  

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)