La Guida suprema iraniana Ali Khamenei (Ansa) 

la guerra è più grande

L'Iran e Hezbollah risponderanno. Biden dice che difenderà Israele ma dà un ultimatum a Netanyahu

Cecilia Sala

La Repubblica islamica e la sua milizia prediletta, dopo il 7 ottobre, hanno ostentato attendismo. Con la morte del capo di Hamas, Ismail Haniyeh, il loro approccio cambierà

Per la prima volta dal 7 ottobre la priorità dell’Iran e di Hezbollah è rispondere “versando sangue” e non evitare a ogni costo di tirarsi in casa una guerra più grande. Dopo il 7 ottobre la Repubblica islamica e la sua milizia prediletta si erano affrettate a dire che del massacro di Hamas non sapevano niente, avevano appreso la notizia dai media come noi. Temevano la reazione israeliana, temevano una guerra in tutta la regione con la partecipazione degli aerei americani e non avevano intenzione di morire per Hamas. Il gruppo palestinese era rimasto deluso. Il suo calcolo era che la peggiore strage di ebrei in un solo giorno dall’Olocausto avrebbe comportato una resa dei conti totale in medio oriente. L’auspicio era che l’Asse della resistenza si sarebbe mobilitato all’unisono – alleggerendo la pressione delle bombe israeliane su Hamas, perché le bombe sarebbero state ripartite su tutti i fronti, e generando un caos sufficiente da rendere l’ipotesi di sconfiggere lo stato ebraico non del tutto impensabile.

Fin qui è andata diversamente. Il capo della Repubblica islamica Ali Khamenei e il capo di Hezbollah Hassan Nasrallah non hanno cambiato idea sul fatto che un conflitto totale non convenga, ma i discorsi di entrambi negli ultimi tre giorni dicono che una reazione è garantita, che loro sono più disposti di quanto lo siano mai stati dal 7 ottobre a correre il rischio di una guerra grande. Quando la bomba piazzata dal Mossad nella stanza da letto di Ismail Haniyeh è esplosa, Esmail Qaani, il capo delle forze Quds dei pasdaran, si è precipitato sul posto. Aveva ancora il corpo carbonizzato del capo politico di Hamas davanti agli occhi, era ancora notte fonda, quando Qaani ha svegliato con una telefonata il leader supremo. Khamenei ha convocato prima dell’alba una riunione del Consiglio nazionale di sicurezza nel suo appartamento e ha dato l’ordine di preparare e poi lanciare un attacco contro Israele.

È una dinamica molto diversa dall’ultima volta, quando i caccia israeliani fecero fuoco con sei missili contro il consolato iraniano a Damasco e Khamenei non promise subito vendetta e si prese delle settimane per decidere la risposta. Poi avvisò tutti i paesi della regione (di conseguenza anche gli Stati Uniti, quindi anche Israele) che un bombardamento contro lo stato ebraico stava per partire, e nella notte fra il 13 e il 14 aprile l’Iran lanciò trecento droni e missili. Tre funzionari americani hanno detto alla testata Axios che questa volta l’Amministrazione Biden è convinta che l’Iran attaccherà entro una manciata di giorni e il presidente americano ha avvisato Benjamin Netanyahu che gli Stati Uniti difenderanno Israele da questo bombardamento, ma sarà l’ultima volta. Se il primo ministro israeliano risponderà “alzando ancora il livello dello scontro, non potrà contare su di noi per salvarlo”. Biden ha imposto il limite dell’ultimo colpo, già sparato, a Israele. Secondo gli Stati Uniti la rappresaglia iraniana in arrivo sarà più dura dell’attacco di aprile.

Nel suo videomessaggio per il funerale del comandante di Hezbollah Fuad Shukr, ucciso  a Beirut dieci ore prima di Haniyeh, Nasrallah ha detto per la prima volta dal sette ottobre “adesso la guerra cambia ed entra in una nuova fase” e che negli ultimi due giorni di luglio Israele ha oltrepassato la linea rossa. “Questa non è più una guerra di supporto (a Hamas a Gaza) ma una guerra aperta in Libano e in Iran”. Per non rischiare che questa nuova fase venisse sottovalutata o fraintesa, Nasrallah ha specificato che “i lanci di missili che vedrete a partire da domani mattina (ieri mattina) sono i normali attacchi che portiamo avanti in sostegno a Gaza. Ma non hanno nulla a che fare con quella che sarà la risposta all’assassinio” di Shukr a Beirut e di Haniyeh a Teheran.

Il messaggio dell’Iran è stato coerente, ma più duro. Quando si trattava di anticipare il bombardamento di aprile, per indicarlo i vertici della Repubblica islamica usavano la parola “schiaffo”. L’attacco doveva essere una dimostrazione di forza, per provare a ristabilire la deterrenza e dimostrare per la prima volta nella storia che i missili iraniani sono in grado di raggiungere qualsiasi punto sulla mappa di Israele. La parola che usano i vertici per riferirsi al prossimo attacco è diversa: “Sangue”. “Sangue per sangue” oppure “prelevare il sangue” al nemico. Significa che l’obiettivo non sarà una dimostrazione delle proprie capacità ma ammazzare qualcuno. Gli analisti sono divisi sui tempi: i funzionari americani che hanno parlato alla stampa prevedono una reazione molto rapida, Paul Salem, il vicepresidente del Middle East Institute di Washington che vive a Beirut e ha buone fonti in Libano e in Iran, non esclude una risposta immediata ma neppure un bombardamento tra due mesi per aspettare che cali il clima di allerta in Israele e che le navi da guerra americane si spostino di nuovo altrove.

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