La trappola russa
Non è vero che a Istanbul ucraini e russi sono stati a un passo da un accordo di pace
Nelle trattative del 2022 sul tavolo Mosca aveva messo la condanna di Kyiv all’occupazione definitiva. Ecco invece tutta la ricostruzione dettagliata di un grande imbroglio
Recentemente, alcuni articoli sulla stampa internazionale hanno riacceso il dibattito sulle cause del fallimento dei negoziati tra Russia e Ucraina tenutisi a Istanbul nell’aprile 2022. Foreign Affairs ha pubblicato l’articolo “The Talks That Could Have Ended the War in Ukraine”, mentre sul New York Times è apparso il pezzo intitolato “Ukraine-Russia Peace Is as Elusive as Ever. But in 2022 They Were Talking”, corredato dalla bozza dell’accordo.
Il dibattito italiano, salvo rare eccezioni, si è limitato a una lettura superficiale dei titoli, senza approfondire i contenuti degli articoli e, soprattutto, senza analizzare il testo dell’accordo stesso. Ciò ha portato a una conclusione banale e semplicistica, riassumibile in una frase: “La pace non è stata raggiunta perché Boris Johnson, ex-premier britannico, giunto a Kyiv, ha promesso armi al presidente ucraino Volodymyr Zelensky, facendo così saltare la ‘proposta di pace’ di Putin”.
L’aspetto più paradossale di questa discussione si è fondato su due premesse: la prima, che all’Ucraina conveniva firmare l’accordo nell’aprile 2022 perché all’epoca controllava molti più territori di quanti ne controlli oggi. Basterebbe guardare la mappa dei territori occupati dalla Russia due anni e mezzo fa e confrontarla con quella odierna per capire la dimensione della disinformazione tanto diffusa da alcuni commentatori in Italia, o semplicemente ricordare che la controffensiva ucraina, che ha portato alla liberazione della maggior parte della regione di Kharkiv, respingendo le forze russe e permettendo il ritorno di gran parte degli ucraini nella regione, è avvenuta a settembre del 2022, così come la liberazione dal controllo russo della città di Kherson e di altre aree dell’oblast di Kherson e dell’oblast di Mykolaiv sulla riva destra del fiume Dnipro, avvenuta l’11 novembre 2022.
La seconda premessa, non meno assurda della prima, è che l’accettazione da parte dell’Ucraina delle condizioni dettate dal Cremlino avrebbe portato alla fine della guerra e a una pace duratura. Il 24 febbraio 2022, Vladimir Putin lancia l’invasione su larga scala dell’Ucraina. L’obiettivo principale è conquistare Kyiv entro massimo una settimana, rovesciare il governo legittimamente eletto sostituendolo con un regime fantoccio, e così avviare un effettivo controllo e, da lì, l’occupazione dell’intero paese.
Il 28 febbraio 2022 iniziano i negoziati tra Russia e Ucraina. L’intento reale da parte russa di questo negoziato è chiaro fin dall’inizio: non si tratta di cercare una soluzione di compromesso, ma piuttosto di presentare all’Ucraina una richiesta di resa e capitolazione. Ciò è stato confermato dalla nomina di Vladimir Medinsky a capo negoziatore della delegazione russa. Ex ministro della Cultura, Medinsky è soprattutto noto come ghostwriter di molti testi storici e articoli di Putin. Ha contribuito a costruire l’impalcatura ideologica e storica su cui si basa gran parte della governance del Cremlino. E’ stato lui a curare il famoso articolo di Putin pubblicato nel 2021 sull’“unità storica” tra Russia e Ucraina, in cui il presidente russo negava all’Ucraina il diritto di esistere come stato indipendente. Recentemente, Medinsky, insieme ad Aleksander Chubaryan, storico dell’Accademia delle Scienze, e Anatoly Torkunov, rettore del MGIMO (l’università Statale di Mosca), ha pubblicato un manuale scolastico di storia obbligatorio nelle scuole, in cui l’Ucraina non è descritta come uno stato indipendente con una propria storia, bensì come un “progetto antirusso”.
Gli ucraini, ben consapevoli di chi hanno di fronte, si impegnano comunque nel negoziato, lavorando insieme alla controparte su varie bozze dell’accordo. A metà aprile, si giunge a una versione che, secondo alcuni analisti, avrebbe avuto qualche possibilità di essere firmata a Istanbul e successivamente implementata.
Un esame approfondito del testo dell’accordo rivela tuttavia una realtà ben diversa: la Russia, dopo un mese di invasione, costretta ad abbandonare l’idea di conquistare “Kyiv in tre giorni” e sconfitta in quattro regioni dell’Ucraina settentrionale (Sumy, Chernihiv, Kyiv, Zhytomyr), ha cercato di raggiungere lo stesso obiettivo attraverso questo accordo. Il documento, infatti, ha ben poco a che fare con la pace e molto con l’occupazione e la fine della statualità ucraina. Di conseguenza, la domanda sul perché gli ucraini non abbiano firmato l’accordo non avrebbe nemmeno dovuto porsi. Tuttavia, viste le continue speculazioni mediatiche, cerchiamo di spiegare l’ovvio.
Le ragioni principali del fallimento del negoziato di Istanbul sono tre: 1. Mancanza di chiarezza sul futuro dei territori occupati dalla Russia sino ad aprile 2022. 2. Assenza di garanzie reali di sicurezza per l’Ucraina in caso di una rinnovata invasione russa. 3. L’esperienza negativa dell’Ucraina (così come di altri paesi ex sovietici) con la Russia riguardo ai negoziati, all’implementazione e al rispetto degli accordi firmati.
In molte analisi, il fattore principale che avrebbe portato al fallimento del negoziato a Istanbul sarebbe l’assenza di consenso sulle garanzie di sicurezza da parte dei garanti o la posizione russa al riguardo. Sebbene questo sia sicuramente un problema di cui discuteremo a breve, la questione fondamentale risiede nell’assenza di una definizione chiara dei confini dell’Ucraina e dei territori sotto il suo controllo, sui quali Kyiv era chiamata ad applicare le condizioni presenti nel documento di Istanbul.
Nell’Articolo 1 del documento proposto da Mosca, l’Ucraina si impegna a mantenere la propria neutralità permanente, come dichiarato e sancito nella sua Costituzione. In cambio, le altre nazioni si impegnano a rispettare e tutelare la sua indipendenza e sovranità (Articolo 2). E’ importante sottolineare, tuttavia, che nell’Articolo 2 non vi è alcun riferimento all’integrità territoriale dell’Ucraina. Questo è dovuto non solo alla difficoltà di decidere il futuro status della Crimea e delle autoproclamate repubbliche popolari di Donetsk e Luhansk (Dnr/Lnr) durante i negoziati a Istanbul, ma anche al fatto che la Russia ha volutamente lasciato intendere le sue pretese di mantenere il controllo sui territori occupati a seguito dell’invasione su larga scala del 2022.
In effetti, nell’accordo non vi è alcun articolo che preveda il ritiro delle truppe russe alle posizioni precedenti il 24 febbraio 2022. Di conseguenza, risulta difficile determinare su quale territorio l’Ucraina sarebbe stata autorizzata a esercitare la propria sovranità. Inoltre, in caso di un nuovo attacco sul territorio ucraino, il documento non chiarisce quale territorio l’Ucraina avrebbe potuto considerare suo e su quale territorio sarebbe stata legittimata a compiere azioni difensive in risposta a un nuovo attacco.
L’Articolo 9 afferma chiaramente che, oltre alla Crimea e alle autoproclamate repubbliche popolari di Donetsk e Luhansk (DNR/LNR), vi sono altri territori (indicati sulla mappa nell’Allegato) sui quali l’Ucraina non può esercitare la sovranità. Tuttavia, la “mappa nell’Allegato” non è mai esistita perché doveva essere definita successivamente in un eventuale incontro tra Putin e Zelensky. Pertanto, l’Ucraina avrebbe dovuto dichiarare in anticipo la rinuncia a esercitare la sovranità non solo sui territori persi nel 2014, ma anche su quelli persi fino ad aprile 2022, e non è chiaro neppure su quali altri territori. Come ben noto, il Cremlino chiede apertamente di cedere alla Russia, per esempio, tutta la regione di Donetsk, nonostante il 40 per cento sia rimasta in mano dell’Ucraina.
L’assenza di chiarezza sulla linea di contatto tra le parti e sull’estensione della sovranità ucraina ha creato una situazione complessa nei successivi articoli dell’accordo, in particolare quelli riguardanti il cessate il fuoco. L’Articolo 11 specifica che i tempi e le procedure per il cessate il fuoco, il ritiro delle truppe e lo scambio di prigionieri di guerra tra la Federazione Russa e l’Ucraina sono determinati dall’Allegato 5. Quest’ultimo delinea i seguenti punti: (1) la Russia e l’Ucraina adottano misure per separare le forze e non compiono azioni che possano espandere il territorio controllato (senza specificare quale territorio sia controllato dalle parti) o causare una ripresa delle ostilità; (2) l’Ucraina ritira le sue truppe e le attrezzature militari ai luoghi di dispiegamento permanente o ai luoghi concordati con la Russia; (3) le modalità e i tempi per il ritiro delle truppe e delle attrezzature militari russe al di fuori del territorio indicato sulla mappa nell’allegato (che, ricordiamo, non esiste) saranno definiti in base a un calendario che verrà stabilito successivamente.
Quindi, secondo i termini proposti dalla Russia, l’Ucraina sarebbe stata obbligata a ritirarsi immediatamente, mentre il ritiro delle forze russe sarebbe stato oggetto di ulteriori “consultazioni”. La disparità nel trattamento dei due eserciti rifletteva le ambiguità e le incertezze che permeavano l’intero accordo, rendendo difficile per l’Ucraina esercitare pienamente la propria sovranità e difendere i propri interessi territoriali, un diritto sancito dalla Carta delle Nazioni Unite.
A tutto questo si aggiunge il fatto che, nel contesto della guerra, per Kyiv la difesa del proprio territorio non è più solo un principio astratto, ma un disperato tentativo di proteggere la popolazione dall’occupazione russa. Il modo in cui la Russia sta conducendo l’occupazione e l’amministrazione dei territori ucraini – attraverso torture, esecuzioni, rapimenti (compresi quelli di bambini), negazione dei diritti umani e cancellazione dell’identità ucraina – evidenziato dalla tragedia di Bucha e documentato in circa venti rapporti dell’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (Ohchr) pubblicati nel periodo 2022-2024, rende impraticabile per Kyiv accettare una soluzione basata sulla formula “terra in cambio di pace”.
Apriamo una parentesi: mentre ci vorranno decine di articoli per analizzare a fondo i rapporti dell’Ohchr, vale la pena citare alcuni passaggi per chiarire perché la questione della liberazione dei territori occupati sia diventata vitale per l’Ucraina. Secondo questi rapporti, basati su diverse migliaia di interviste remote e in presenza con testimoni e vittime, le forze armate russe hanno utilizzato diversi tipi di violenza: pestaggi severi, tagli, inserimento di oggetti appuntiti sotto le unghie, esecuzioni simulate, scariche elettriche, strangolamento, soffocamento e spari accanto alla testa delle vittime. Le autorità russe hanno usato la tortura in modo diffuso e sistematico nelle regioni di Kherson e Zaporizhzhia e nella città di Melitopol. Le vittime erano uomini e donne tra i 21 e i 58 anni. La maggior parte delle vittime di omicidi volontari e stupri è stata anche soggetta a torture.
I testimoni hanno riportato situazioni in cui la tortura è stata così brutale da provocare la morte delle vittime. Ex detenuti maschi hanno riferito di minacce di stupro e torture ai genitali. Una vittima di pestaggi e scariche elettriche ai genitali ha dichiarato che uno dei carnefici gli diceva: “Ti picchierò finché non sarai più in grado di fare figli.” Un altro ex detenuto ha affermato: “Nessuna creatura viva merita di essere trattata come i russi trattano gli ucraini. Lì dentro non ti senti più un essere umano.”
Chiusa parentesi, torniamo ai falliti negoziati di Istanbul analizzando la seconda ragione per cui l’accordo non è stato firmato: l’assenza di un credibile impegno da parte degli stati garanti – Gran Bretagna, Cina, Russia, Stati Uniti e Francia – a difendere l’Ucraina in caso di una nuova invasione e la posizione della Russia al riguardo.
L’Articolo 5 afferma che, in caso di attacco all’Ucraina (a quel punto quasi totalmente demilitarizzata come stabilito da altri articoli dell’accordo), gli stati garanti della sicurezza sarebbero intervenuti a difesa dell’Ucraina. Tuttavia, vi era una clausola cruciale inserita dal Cremlino che richiedeva il consenso di tutti i paesi garanti — inclusa la stessa Russia — per qualsiasi intervento militare a favore di Kyiv. In pratica, la Russia avrebbe potuto invadere nuovamente l’Ucraina e poi porre il veto a qualsiasi intervento militare contro l’aggressione.
Oltre all’assurdità di questa clausola, il maggiore problema dell’accordo era che nessuno dei paesi sopracitati era stato consultato dalle parti e nessuno di loro aveva mai dato il proprio consenso ad agire come stato garante della sicurezza dell’Ucraina. La terza ragione per cui il negoziato a Istanbul è fallito non riguarda tanto il contenuto dell’accordo quanto l’esperienza negativa che l’Ucraina (così come altri paesi ex sovietici) ha avuto con la Russia riguardo ai negoziati, all’implementazione e al rispetto degli accordi firmati.
Dal 2014 al 2022, Kyiv ha partecipato a oltre duecento round di negoziati con la Russia per elaborare gli Accordi di Minsk 1 e 2 e successivamente per cercare di implementarli. Senza ripercorrere nuovamente la storia di questi accordi, già ampiamente analizzata, le ragioni del loro insuccesso possono essere riassunte con le parole di un ex-diplomatico, Wolfgang Sporrer, coinvolto nel processo diplomatico mediato da Francia, Germania e Osce, che ha portato agli Accordi di Minsk del 2014-2015. In un’intervista, il diplomatico ha sostenuto che con il conflitto nel Donbas la Russia “mirava fondamentalmente a influenzare l’orientamento della politica interna ed estera del governo a Kyiv”. Secondo lui negli Accordi di Minsk si è costruita “una finzione di conflitto etnico”, mentre in realtà la Russia non aveva alcun interesse specifico nel garantire autonomia all’Ucraina orientale o ai cittadini ucraini di lingua russa o etnia russa. Piuttosto, Mosca era “preoccupata soprattutto per ciò che stava accadendo a Kyiv”. Il conflitto in Ucraina, riguardava “semplicemente l’orientamento dell’Ucraina”, il suo essere “pro russa” o “pro occidentale”. Tuttavia, gli Accordi di Minsk trattavano questioni completamente diverse, il che spiega perché il processo non ha avuto successo.
Nonostante non coinvolga direttamente l’Ucraina, è importante considerare l’esperienza negativa dei paesi ex sovietici con la Russia riguardo al mancato rispetto dell’implementazione degli accordi firmati dal Cremlino. Un esempio significativo è rappresentato dall’“accordo di pace” raggiunto tra Mosca e Tbilisi a seguito dell’invasione russa della Georgia nell’agosto 2008. Il 16 agosto, Dmitri Medvedev, all’epoca presidente della Russia, accolse la mediazione dell’ex presidente francese Nicolas Sarkozy e il cosiddetto “piano a sei punti” da lui preparato. Il punto 5 stabiliva che la Russia avrebbe dovuto ritirare le proprie truppe alle posizioni precedenti all’inizio delle ostilità. Prima di firmare l’accordo Medvedev dichiarò solennemente: “Lo scopo dell’operazione russa per costringere la Georgia alla pace è stato raggiunto. L’aggressore è stato punito”. In seguito Tbilisi ritirò le truppe georgiane dalla zona del conflitto, mentre la Russia non solo non ritirò le sue forze armate, ma violò l’accordo esattamente dieci giorni dopo la firma, riconoscendo l’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia come stati indipendenti. Successivamente, la Russia ha aperto basi militari in queste repubbliche de facto, avviando cosi un’occupazione militare che continua fino ad oggi su circa il 20 per cento del territorio georgiano.
Affrontando le tre ragioni principali per cui il negoziato di Istanbul è fallito, diventa inutile trattare altri aspetti dell’accordo, come la rinuncia dell’Ucraina a chiedere risarcimenti per gli ingenti danni subiti e riparazioni e la chiusura di tutti i procedimenti giudiziari e arbitrali internazionali riguardanti le controversie tra la Federazione russa e l’Ucraina, avviati dal 2014 – in particolare, presso la Corte Internazionale di Giustizia, la Cedu e le arbitrati ai sensi della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare del 1982 – (Articolo 7). O, ancora, l’immediata rimozione delle sanzioni alla Russia (Articolo 6).
Il documento di Istanbul prefigurava una situazione in cui il Cremlino avrebbe potuto esercitare un pieno controllo sull’Ucraina, non una pace sostenibile con un paese indipendente. Le richieste di Putin miravano a indebolire Kyiv, garantendo che rimanesse vulnerabile e permettendo a Mosca di dettarne le politiche future, sia interne sia esterne. Mentre l’Ucraina era pronta ad accettare la neutralità e la demilitarizzazione, Putin rispondeva così: non solo terrò i territori che ho occupato, ma anche quelli che non sono riuscito a conquistare; manterrò le truppe russe sui territori ucraini fino a quando mi farà comodo, eventualmente per sempre; l’Ucraina, demilitarizzata e fuori dalla Nato, dovrà accettare l’assenza di garanzie reali che gli attori esterni la difendano in caso di futura aggressione; l’Ucraina e l’occidente dovranno eliminare tutte le sanzioni contro la Russia e, naturalmente, la Russia non pagherà alcun risarcimento per i danni causati all’Ucraina. Se Kyiv avesse firmato l’accordo di Istanbul, avrebbe avviato l’occupazione e il controllo russo dell’intero territorio ucraino, trasformando il paese in uno stato satellite del Cremlino, simile alla Bielorussia. Questo avrebbe segnato la fine dell’indipendenza dell’Ucraina, per non parlare della sua integrazione europea. Il 5 ottobre 2023 Putin dichiarò: “La crisi ucraina non è un conflitto territoriale! La Russia è il paese più grande del mondo in termini di territorio. Non abbiamo interesse a conquistare ulteriori territori. Dobbiamo ancora esplorare la Siberia e l’Estremo oriente.” In effetti, per lui la guerra non è mai stata solo una questione di Crimea o del Donbas, ma ha sempre riguardato l’acquisizione di un controllo politico su tutta l’Ucraina. Questo era e rimane l’obiettivo primario della Russia sin dall’invasione del 2014, il che ha inevitabilmente ostacolato qualsiasi negoziato in passato e continuerà a farlo in futuro.