(foto EPA)

l'editoriale del direttore

Anche a Meloni conviene la vittoria di Kamala Harris

Claudio Cerasa

Il pensiero stupendo che la premier non può dire a voce alta, ma è uguale a quello di Mattarella e Marina B.: per lei e il suo governo è  meglio se Trump perde. L’Italia resterà atlantica, europea e poco salviniana

Tra i meravigliosi pettegolezzi estivi che animano da giorni i sonnolenti palazzi della politica ce n’è uno delizioso che riguarda una convinzione profonda maturata dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Una convinzione non virgolettabile, come si dice, neppure attribuibile, neppure confessabile ma che spiega bene qual è il bivio internazionale di fronte al quale si trova il capo del governo italiano: che fare con Donald Trump? Nei primi due anni di governo, è noto, Giorgia Meloni ha scelto di assecondare in tutto e per tutto il presidente uscente, Joe Biden, e su almeno tre partite importanti l’anti trumpismo di Meloni è stato piuttosto evidente. Mentre Trump mostrava disprezzo per l’Ucraina e simpatia per Putin, Meloni mostrava simpatia per l’Ucraina e disprezzo per Putin. Mentre Trump chiedeva di interrompere i rifornimenti di armi all’Ucraina, Meloni combatteva chi nel suo governo chiedeva di interrompere i rifornimenti di armi all’Ucraina. Mentre Trump prometteva di disinteressarsi delle sorti di Taiwan, Meloni assecondava l’agenda Biden anche sul fronte della protezione di Taiwan. Mentre Trump chiedeva di disimpegnarsi dalle principali azioni volte a combattere il cambiamento climatico, Meloni firmava con Biden un protocollo di intesa alla Casa Bianca per invitare i governi a dare il buon esempio, sul tema della lotta contro il cambiamento climatico, e a raggiungere zero emissioni nette da operazioni dei governi nazionali entro e non oltre il 2050.

 

Fino a oggi, nei suoi primi due anni di governo, tra l’agenda Trump e l’agenda Biden Meloni non ha avuto dubbi e ha scelto sempre l’agenda Biden. Oggi, a poche settimane dalle elezioni americane, il tema in qualche modo si propone, e la domanda è sempre più centrale: che fare con Donald Trump? Il tema riguarda il futuro dell’Italia, naturalmente, ma riguarda anche il futuro della stessa presidente del Consiglio. Qualche giorno fa, durante la cerimonia del Ventaglio, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha inviato un messaggio in codice alla premier, riferendosi indirettamente al possibile arrivo di Trump: “Nessuno – vorrei presumere – ipotizza di conformare i propri orientamenti a seconda di quanto decidono elettori di altri paesi e non in base a quel che risponde al rispetto del nostro interesse nazionale e dei princìpi della nostra Costituzione”. Il messaggio di Mattarella è chiaro: le posizioni dell’Italia, sui temi di carattere internazionale, sui temi di carattere europeo, sui temi che riguardano la difesa della democrazia, compresa quella ucraina, devono restare coerenti con la tutela dell’interesse nazionale italiano ed è impensabile che un paese sovrano si faccia dettare l’agenda dagli elettori di un altro paese. Il timore di Mattarella, timore diffuso, è che l’eventuale arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca spinga il governo a spostare il suo baricentro verso l’estremismo, verso il nazionalismo, verso il populismo, verso l’anti europeismo, in definitiva verso il salvinismo, e per quanto possa apparire paradossale il timore che il capo dello stato esplicita in pubblico è lo stesso timore che la presidente del Consiglio esplicita in privato.

 

Non sentirete mai Giorgia Meloni dire, pensando all’America, che se fosse un’elettrice americana voterebbe per i democratici. Ma le sentirete, in privato, fare un ragionamento non troppo diverso rispetto a quello che ha fatto conoscere Marina Berlusconi: chi ha a cuore la difesa di un sano pensiero conservatore non può non osservare con preoccupazione tutto ciò che rappresenta, per il mondo, e non solo per gli Stati Uniti, l’ascesa dell’ex presidente americano. Giorgia Meloni non può dirlo ufficialmente ma una delle ragioni per cui ha scelto di non prendere posizione nella campagna elettorale americana è legata a qualcosa di più di una semplice neutralità istituzionale. E’ legata a un pensiero inconfessabile del presidente del Consiglio: una sconfitta di Trump, in America, sarebbe una buona notizia per l’Italia, e anche per Meloni, perché non costringerebbe il governo italiano a dover assecondare il salvinismo, perché non costringere il governo italiano a doversi rimangiare le svolte costruite con sacrificio in questi anni, perché non costringerebbe il partito guidato da Giorgia Meloni a tornare al passo dell’oca e perché non darebbe il pretesto ai volti più in vista della destra italiana per farsi risucchiare via dal richiamo della foresta del populismo, del sovranismo, del nazionalismo, che con una certa fatica Meloni è riuscita a contenere. Meloni, nelle ultime settimane, deve aver sentito sulle proprie spalle il peso della possibile ascesa del trumpismo e il  voto contrario a Ursula von der Leyen è arrivato in un momento topico: subito dopo l’attentato a Trump, poco prima delle dimissioni di Biden, in un passaggio in cui la vittoria di Trump sembrava inevitabile e in un passaggio in cui la volontà di non schiacciarsi sul mainstream anti trumpiano europeo può aver giocato un ruolo nella scelta finale.

Oggi però, con l’arrivo di Kamala Harris, i giochi americani potrebbero essere riaperti e le ragioni per cui il presidente del Consiglio non dirà mai una parola a favore di Trump, in questa campagna elettorale, non sono legate solo a un tema di opportunità ma sono legate anche a un tema di speranza. Con una vittoria di Trump, il percorso del governo Meloni potrebbe subire degli scossoni, anche negativi – Trump, è noto, è un tipo vendicativo, e a Meloni non deve essere sfuggito che a Milwaukee, durante la convention repubblicana, l’unico leader europeo citato da Trump come modello è stato Viktor Orbán. Con una sconfitta di Trump, per il percorso del governo Meloni non cambierebbe nulla, e non ci vuole molto a capire che un conto, per Meloni, è provare a costruire alleanze in Europa dimostrando di sapere contenere il modello Salvini e un altro è provare a costruire alleanze in Europa facendosi dettare l’agenda dai paria europei. Meloni non lo può dire, non lo può esplicitare, non lo può ammettere ma quello che non può negare è che dovendo scegliere tra una presidenza Trump e una presidenza Kamala non avrebbe dubbi. Meglio la seconda che la prima. Ma non ditelo a Matteo.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.