l'attesa

L'effetto delle minacce di Nasrallah sugli israeliani

Micol Flammini

Più che l'attacco dell'Iran e di Hezbollah, lo stato ebraico si preoccupa delle divisioni interne: le proteste degli haredim, gli attacchi dell'ultradetsra e il progetto di licenziare il ministro della Difesa. C'è un gruppo pronto a protestare per difenderlo, si chiama: "le notti di Gallant 2"

 “Non mi preoccupa l’Iran, sappiamo come difenderci – dice Rivka che non si perde una manifestazione a sostegno degli ostaggi israeliani e delle loro famiglie – mi preoccupa lo stato di salute dell’unità israeliana”. Rivka sa cosa fare quando sentirà le sirene  che annunciano l’attacco di Teheran e dei suoi alleati, sa dove andare, cosa portare, aspetta, senza ansia. Affronta l’ineluttabilità di un attacco promesso concentrandosi su quello che finora ha reso possibile la difesa di Israele: “Se ci siamo difesi contro ogni nemico è perché eravamo uniti. Eravamo un popolo, ora  siamo delle tribù”. L’attesa per l’attacco dell’Iran e di Hezbollah si accumula da giorni e Tsahal, l’esercito israeliano, sigilla le sue difese.  Ieri il leader del gruppo libanese Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha parlato dal suo bunker in Libano per ricordare il suo braccio destro Fuad Shukr, ucciso la scorsa settimana a Beirut da un drone israeliano. Nasrallah  lo ha definito più forte di una montagna, ha detto che si sentivano tutte le sere, puntuali alle 18. Gli israeliani non seguono i  discorsi  di Nasrallah, non sono interessati alle promesse e alle minacce e ieri non si sono interessati quando  ha detto che questa attesa per l’attacco è parte della guerra, gli israeliani meritano di stare con il fiato sospeso, ma stiano certi che  Hezbollah vendicherà Shukr, l’Iran invece, vendicherà  il leader di Hamas Ismail Haniyeh. “Questa è una guerra  per Gaza”, ha sottolineato Nasrallah, dando a Hamas quel sostegno che il gruppo si aspettava dopo il 7 ottobre. 


Gli esperti per la sicurezza nazionale della Casa Bianca hanno detto al presidente Biden che non sono in grado di stabilire quando ci sarà l’attacco né che tipo di attacco sarà, infatti non è detto che l’Iran e i suoi alleati abbiano già deciso come agire. La forza delle dichiarazioni iniziali ha preso una nuova piega e ieri anche il capo del Cremlino, Vladimir Putin, dopo aver mandato a Teheran il suo ex ministro della Difesa Sergei Shoigu, avrebbe raccomandato agli iraniani di fare un attacco limitato, non sui civili. 


Gli israeliani aspettano, non possono fare altro e, più che pensare al nemico esterno, si preoccupano dell’unità interna che manca per affrontarlo. Ieri un gruppo di giovani haredim è andato ad assaltare la base militare di Tel Hashomer  protestando contro la leva obbligatoria degli studenti ultraortodossi, finora esentati dal servizio militare che tutti gli israeliani devono fare. La distanza tra la comunità ultraortodossa  e il resto del  paese è  la ferita di una società che non è più disposta a far pagare il tributo per la sicurezza soltanto a una parte della popolazione. Queste proteste preoccupano, come preoccupano le azioni violente degli esponenti di estrema destra che la scorsa settimana sono andati ad assaltare altre basi militari per protestare contro l’arresto di alcuni soldati accusati di torture contro detenuti palestinesi. La parte di società che ritiene che sia  l’unità  la forza di Israele ha anche un altro timore: secondo pettegolezzi istituzionali il primo ministro Benjamin Netanyahu aspetta il momento giusto per licenziare Yoav Gallant, il ministro della Difesa, apprezzato dagli israeliani e anche dagli alleati americani e in una chat di WhatsApp chiamata “Preparazione per la notte di Gallant 2”, gli israeliani sono già pronti a scendere in strada. “La notte di Gallant” era il nome della protesta quando gli israeliani manifestavano contro la riforma costituzionale lo scorso anno e il ministro della Difesa era l’unico del governo a dire che il testo andava cambiato. Ora sono pronti a protestare di nuovo, consapevoli che licenziare un ministro della Difesa rispettato in questo momento di guerra sarebbe un regalo all’Iran. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)