Le scuse a denti stretti di Netanyahu non sono piaciute

Micol Flammini

I media israeliani vanno a caccia di bufale nelle dichiarazioni del premier al Time, mentre da Gaza arrivano voci su una nuova posizione di Sinwar sul cessate  il fuoco: pensa a una tregua breve e senza il Qatar di mezzo

Benjamin Netanyahu ha due anni in meno dello stato di Israele, dei suoi settantaquattro anni, più di venti li ha trascorsi alla guida del suo paese, si è tatuato addosso lo stato e lui si è tatuato addosso a Israele, ha voluto  imporsi come il garante della sicurezza di un paese minacciato da ogni lato. Tutto questo fino al 7 ottobre. Gli apparati di sicurezza hanno chiesto scusa alla popolazione per non aver capito la minaccia di Hamas. Alcuni militari hanno fatto altrettanto, promettendo un’inchiesta per far venire fuori tutti i ritardi e gli errori. Anche i politici, soprattutto dell’opposizione, hanno ritenuto di dover delle scuse agli israeliani. Netanyahu finora no e la sua prima intervista a una testata internazionale rilasciata dopo il 7 ottobre, se verrà ricordata, verrà ricordata  per una battuta: “Apologize?”. “Scusarmi?”, domanda il primo ministro al  Time, “certo, certo. Mi dispiace profondamente che sia accaduta una cosa del genere. Continui a guardarti indietro e dici: avremmo potuto fare qualcosa per impedirlo?”. 
Dopo il 7 ottobre, Netanyahu non ha parlato molto neppure con la stampa israeliana, ha rilasciato una lunga intervista a un canale amico, Keshet 14, ma a detta dei giornalisti rimane  piuttosto introvabile. Per questo la conversazione con il Time, rilasciata nei giorni in cui Israele si prepara all’attacco di Hezbollah e dell’Iran, è stata scandagliata e i media israeliani si sono lanciati in un accurato lavorio demistificatorio, partendo proprio  da quelle scuse a denti serrati che Netanyahu ha pronunciato con oltre trecento giorni di ritardo.  I giornalisti hanno fatto notare  che  il premier lascia intendere che la colpa del 7 ottobre sia stata tutta delle sbagliate valutazioni – e fin qui è  vero – e che l’idea di lasciare che Hamas venisse finanziato fosse dell’apparato di sicurezza: qui cominciano le falsità. Netanyahu condivideva il pensiero che Hamas, intrattenuto dal denaro, avrebbe rinunciato alla sua lotta contro lo stato ebraico, eppure al Time dice che avrebbe dovuto approfondire le valutazioni di intelligence. L’intervista è parsa un dito puntato contro tutti tranne che contro se stesso, un tentativo di salvarsi ancora politicamente e non affrontare i problemi del paese, mentre in molti chiedono un accordo per riportare a casa gli oltre cento ostaggi imprigionati  a Gaza. Ieri, secondo il canale Keshet 12, il capo di Hamas, Yahya Sinwar, avrebbe detto di volere un rapido cessate il fuoco, non vuole che il Qatar interferisca nei negoziati e vorrebbe fare da solo. Sono voci che provengono da Hamas, ma se fosse vero, Netanyahu dovrebbe rivelarsi  rapido il più possibile a dimostrare che non è lui l’ostacolo a un accordo, anche se sa che l’obiettivo di Sinwar è ricominciare a combattere. Gli israeliani non vedono più in Netanyahu   “Mr. Sicurezza”, il premier che capiva al volo lo stato ebraico e che sapeva  interpretarlo.  Bibi fa  sempre più fatica a rappresentarlo: e come viene condotta la guerra a Gaza, gli scontri con Hezbollah e gli omicidi mirati in Iran non c’entrano con il disamore. 
 

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)