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Controllati a vista. Tra Israele e Iran è già guerra di intelligence

Siegmund Ginzberg

La vita degli inviati, a volte presi per spie, altre volte spie per davvero. “Gando”, serie iraniana, e “Teheran”, serie israeliana: rappresentano i servizi segreti dei due paesi come due gocce d’acqua

“Gando” è il nome di una specie di ferocissimo coccodrillo d’acqua dolce, il cui habitat si estende dal Belucistan iraniano all’India. È particolarmente intelligente. Riesce a distinguere tra chi lo minaccia e chi no. È anche il titolo di una serie televisiva di grande successo (44 per cento di share), di produzione iraniana, diretta da Javad Afshar e scritta da Arash Ghaderi, andata in onda nel 2019 sul canale 3 della televisione iraniana, il più seguito. L’eroe è un agente dei servizi iraniani che dà la caccia a infiltrati e ai loro complici locali. A tirare le fila della cospirazione è un agente britannico sotto copertura da giornalista per una testata americana. La storia ha un riferimento di cronaca: l’arresto per spionaggio, nel 2016, di Jason Rezaian, corrispondente a Teheran per il Washington Post. Il quale poi fu liberato (qualcuno disse scambiato). Esattamente come il corrispondente a Mosca del Wall Street Journal, Evan Gershkovich (è lo stesso Rezaian, che ora lavora nella sezione opinioni del giornale, a evocare il paragone).
 

La serie era andata in onda su un canale “governativo”. Ma va al di là della semplice propaganda. Mette in rilievo le sfaccettature, le divisioni politiche nella società iraniana e in seno agli stessi servizi. E questa potrebbe essere una spiegazione del successo. La fiction era stata criticata da destra e da manca. Non abbastanza patriottica per alcuni (vi figuravano tra l’altro attrici senza velo); ambigua nei confronti dell’allora presidente riformista Rouhani e di tutti quelli che volevano trattare con l’occidente, secondo altri. Finì che la sospesero. La prima serie aveva 30 episodi, la seconda fu troncata dopo appena 13. 
 

Speculare a “Gando” è “Teheran”, una serie televisiva israeliana di spionaggio, creata da Moshe Zonder per il canale Kan e distribuita nel settembre 2020 da Apple TV. La produzione della quarta stagione è stata rinviata per una riscrittura della sceneggiatura in seguito al massacro di Hamas del 7 ottobre e alla guerra a Gaza. La protagonista è un’agente del Mossad infiltrata a Teheran. È una specialista in hacking elettronico. Riesce addirittura ad accedere al sancta sanctorum della guerra elettronica iraniana, ai computer che dirigono le difese antiaeree della principale centrale di arricchimento dell’uranio. Gli iraniani però l’hanno anticipata e hanno trasformato l’hackeraggio in una trappola per le squadriglie di caccia israeliani andati a bombardare gli impianti. Lei si accorge all’ultimo istante che qualcosa non va e fa abortire la missione, evitando che i piloti israeliani vengano abbattuti. Si susseguono colpi di scena a non finire. Lei dall’hackeraggio passa agli assassini mirati, grazie a una nutrita schiera di collaboratori locali. La sua nemesi, esattamente come in “Gando”, è un funzionario dei servizi iraniani. Patriota, zelante fino all’eccesso, lui le dà una caccia spietata, dall’inizio alla fine della serie. Alla fine anche lui, disgustato dall’incompetenza e dalla corruzione dei capi, dagli intrighi di potere al vertice che mettono in pericolo l’Iran, passerà al servizio degli israeliani. Ma il punto non è questo. È che nel film servizi israeliani e iraniani si somigliano come due gocce d’acqua, sono umani e disumani in modo simile, sono spietati e hanno debolezze simili. Talvolta la imbroccano. Più spesso sbagliano, alla stessa maniera. Ci si potrebbe domandare se è la fiction ad anticipare la realtà, o è la cronaca a ispirare la fiction. A parte che di questi ultimi tempi la cronaca è più thrilling e più fantasiosa della fiction, probabilmente è l’una e l’altra cosa insieme.
 

In “Gando” e nella cronaca figurano in primo piano dei giornalisti. In “Teheran”, il capo degli operativi del Mossad in Iran è invece una psicoanalista. Che ha in cura degli ayatollah. Se un regime non sa con chi prendersela, a chi attribuire un clamoroso flop di intelligence o altro, normalmente se la prende con i giornalisti. Perché sono i più facilmente additabili. Li reclutano per la stessa ragione per cui un tempo l’MI6 reclutava a Cambridge e a Oxford. Le attitudini compensano la vulnerabilità. In realtà dovrebbero essere gli ultimi nella lista dei sospetti, perché proprio per il mestiere che fanno sono guardati a vista. In qualsiasi giallo che si rispetti l’assassino non è mai quello che sin dall’inizio appare come tale.
 

Se nella vita non avessi fatto il giornalista forse avrei potuto fare la spia. C’è un’affinità tra i due mestieri. Il giornalista è curioso e ficcanaso. Lo è anche la spia. Mia moglie non mi racconterebbe mai un segreto. Dice che non so tenere nemmeno la pipì. I segreti li spiffero nel primo articolo sull’argomento. Sia spie che giornalisti sono pagati (o almeno, per quanto riguarda i giornalisti, una volta lo erano). Per fare bene il loro mestiere non dovrebbero essere servi. Chi si limita a seguire le veline, compiacere il committente (una volta si diceva l’editore di riferimento) per fare carriera è un pessimo giornalista. Non mi hanno mai imprigionato. Ci sono stati momenti in cui avrebbero potuto farlo. In altri momenti mi sono montato la testa come fossi James Bond. Ho conosciuto spie che facevano finta di fare i giornalisti e giornalisti che facevano finta di fare le spie. Il giornalista è un analista. Lo sono anche le spie che riescono a fare meglio il loro mestiere. Ora, da parecchi anni, spio nei miei libri.
 

Ho lavorato in paesi dove i giornalisti erano guardati a vista. Più di altri. In Cina ho conosciuto una spia vera, che come tutti i suoi colleghi sovietici aveva la copertura di giornalista. Si chiamava Stanislav Lunev. Si faceva passare per corrispondente delle Izvestia, in realtà era un colonnello del Gru, lo spionaggio militare. Hanno fama di essere i più cattivi. “Attento a quello lì”, mi diceva un altro giornalista sovietico, accreditato per la Tass. Tutti sapevano che era del Kgb. C’era evidentemente competizione, anzi odio tra servizi diversi. Biondo, pallido, Lunev lo si sarebbe detto fratello di Vladimir Putin. Anni dopo lo avevo incontrato di nuovo a New York. Non sapevo che poco dopo sarebbe passato agli americani. “Il transfuga più alto in grado del Gru che abbia fatto defezione”, la fascetta del libro che poi avrebbe pubblicato in America, con il titolo “In the Eyes of the Enemy”. Me lo feci arrivare. Scoprii che nel capitolo sugli anni di missione a Pechino sosteneva di avermi reclutato come “la fonte più attendibile del Gru in Cina”. In effetti, per togliermelo di torno, gli avevo passato un’intervista che avevo fatto all’allora presidente cinese Li Xiannian. Sarebbe stato fondamentale agli occhi di Mosca, perché Li rivelava al corrispondente dell’Unità per far sapere “al governo italiano” che la Cina non avrebbe fatto guerra all’Urss (allora erano arcinemici). Avrebbero potuto più facilmente comprare una copia dell’Unità in edicola. Per deformazione professionale, il colonnello Lunev pensava che tutti i giornalisti in Cina fossero agenti dei rispettivi governi.
 

In Cina ho conosciuto una spia vera, che come tutti i suoi colleghi sovietici aveva la copertura di giornalista: Stanislav Lunev


Dell’episodio avremmo riso con i miei interpreti cinesi di allora (peraltro istituzionalmente legati ai loro servizi di sicurezza). “Ma sì, sapevamo benissimo che era un agente sovietico, e che tu te lo volevi levare di torno”.  Ai tempi, mai un rimprovero. Tanto di cappello alla professionalità. Tutti gli stranieri, non solo i giornalisti, erano costantemente guardati a vista. Lo sapevamo da entrambe le parti, e ci comportavamo ovviamente di conseguenza. Faceva parte delle regole del gioco. Gli articoli che scrivevo erano sotto gli occhi di tutti. Facevo molta attenzione a non compromettere le mie fonti. E anche nella vita privata. Di tanto in tanto inviavo, tramite visitatori fidati, lettere riservate alla segreteria del PCI. Non le ricordavo. A rileggerle, non sono male. Uno studioso le ha ritrovate negli archivi ora depositati presso l’Istituto Gramsci. I cinesi non arrestavano i giornalisti stranieri. Semmai li espellevano. Non ho mai capito perché abbiano arrestato e poi espulso il mio amico Tiziano Terzani. Certo non per quello che scriveva, tanto meno perché lo sospettassero di fare la spia. Certo si esibiva un tantino troppo. Le vere spie non danno mai nell’occhio. Probabilmente restò impigliato, senza che lui c’entrasse niente, in un regolamento di conti all’interno della politica e dei servizi cinesi. 
 

Sono passati molti decenni. Ma ci sono cose che in Cina non cambiano. Una è la sorveglianza di massa. Con Xi Jinping si è tornati ai bei vecchi tempi. Oltre che ai più sofisticati sistemi elettronici immaginabili (sono stati loro a inventare il riconoscimento facciale), gli occhi e le orecchie del Partito sono affidati, oltre che alla più numerosa polizia al mondo, a milioni di volontari, casa per casa, luogo di lavoro per luogo di lavoro. “Consulenti per la sicurezza”, li chiamano. Si moltiplicano gli appelli a fare attenzione a chi voglia carpire i segreti della nazione. Il ministero per la Sicurezza dello stato ha avvertito che ogni computer, cellulare, chat, ogni piattaforma online, ogni software per la trasmissione di dati, è a rischio di spionaggio. È la stessa giustificazione con cui in America vogliono bandire TikTok. Ogni angolo di strada a Pechino è tornato a essere sorvegliato da vecchiette e vecchietti col bracciale rosso. Fanno tenerezza.
 

In Iran, dopo l’assassinio a Teheran del leader di Hamas, Ismail Haniyeh, si è intensificato l’appello alla vigilanza di massa. Tutti sono chiamati a denunciare al minimo sospetto. Ma, prima ancora di Israele, il loro problema è che i vertici del regime e degli apparati di sicurezza si sospettano l’un l’altro. Di volersi fare le scarpe l’un l’altro, prima ancora di essere al soldo di Israele. 
 

Ho letto molto sui giornali, sin nei minuti dettagli tecnici, di come si sarebbe svolta l’attesa vendetta iraniana per l’assassinio del leader di Hamas, Ismail Haniyeh, a Teheran. E persino dettagli della contro-vendetta, di come avrebbe reagito Israele. Non mi convince che operazioni del genere vengano preannunciate con tanta precisione, compreso il giorno e l’ora. Hanno senso solo se se ne parla il meno possibile prima che vengano lanciate. Non le si va a raccontare ai giornali. E comunque non prima che l’operazione scatti.
 

Nell’assassinio di Ismail Haniyeh è presupposto che ci sia l’intervento di asset umani in loco. Non sarebbe una novità. I casi degli scienziati nucleari


Più ancora delle rappresaglie e contro-rappresaglie, mi intriga il mistero che avvolge la dinamica del fatto. Hanno detto all’inizio: missile sparato da oltre confini. Impossibile: nessuno ha missili così precisi, chirurgici da centrare esattamente la piccola sezione della palazzina che si voleva colpire e fare solo due vittime: Haniyeh e la sua guardia del corpo. A Gaza radono al suolo interi quartieri. Poi il New York Times ha sostenuto, basandosi su non precisate fonti americane e israeliane, che si sarebbe trattato di una bomba piazzata in quei locali mesi prima, e fatta esplodere a distanza. Non quadra: come facevano a sapere che Haniyeh, il quale viveva a Doha, si sarebbe trovato lì proprio quel giorno e in quel momento? Infine, da Teheran fanno sapere che si sarebbe trattato di un “proiettile” (un missile, un razzo, un drone?) sparato da non molto distante. Quadra un po’ di più. 
 

In tutte e tre le ipotesi, e nella terza più che nelle altre, è presupposto che ci sia l’intervento di asset umani in loco. Non sarebbe una novità. Prima degli assassinii mirati dei capi politici e militari di Hamas e di Hezbollah c’era stata una lunghissima serie, protrattasi per decenni, di assassinii e rapimenti di scienziati nucleari e responsabili dei programmi missilistici iraniani. Avrebbero rallentato il programma nucleare iraniano quanto e più dei sofisticatissimi virus iniettati nei software, delle centrifughe difettose fabbricate in Germania, del sabotaggio cibernetico. Gli assassinii mirati si erano verificati quasi tutti in territorio iraniano. La maggior parte a Teheran. Per strada, con l’intervento di sicari in motocicletta, che sfrecciano di fianco all’auto, sparano ai passeggeri, o vi attaccano un ordigno magnetico. Roba da “Mission Impossible” o da film di James Bond. Conosco il traffico di Teheran. Era micidiale, imbottigliamenti e passo d’uomo già quando, quasi mezzo secolo fa, ci passai un paio d’anni a raccontare ai miei lettori la rivoluzione di Khomeini. Mi dicono che ora è molto, molto peggio
 

Niente può sostituire l’human intelligence. Nel caso Haniyeh è ancora più evidente. L’imbarazzo dell’Iran viene moltiplicato dal fatto che l’ospite era sotto la protezione diretta dei Guardiani della Rivoluzione, erano loro i responsabili della sua sicurezza, dei suoi movimenti, loro i titolari della safe house, dell’alloggio sicuro, e presumibilmente segreto in cui si trovava. Non è solo questione di leggerezza. E nemmeno questione di una percepibile opposizione interna alle scelte strategiche dell’ayatollah in capo. Si sa che alla maggioranza degli iraniani non andava di ospitare il capo di Hamas. Gli iraniani, che sono sciiti, non nutrono particolari simpatie per i palestinesi, che sono sunniti. Men che meno gli garba di essere coinvolti in una guerra con gli Stati Uniti, e nemmeno con Israele. Ne hanno avuto abbastanza di quella durata otto anni, sanguinosissima, contro Saddam Hussein. Ma non si tratta solo di questo. Dall’intera vicenda trapelano, come da un colabrodo, frizioni, rivalità, scaricabarile, tra i diversi servizi di sicurezza. Se non addirittura complicità nell’operazione
 

Tutti ce l’hanno con i Guardiani, che non sono solo la guardia pretoriana del regime, e nemmeno solo un’Arma a sé, multifunzionale, come i Carabineri. Sono dotati di aviazione e anche di missili. Sono uno stato nello stato, con una propria economia e una propria politica estera. Non sono affatto al di sopra di ogni sospetto di lotte al coltello al loro interno.
 

In Iran tutti ce l’hanno con i Guardiani della Rivoluzione, che non sono affatto al di sopra di ogni sospetto di lotte al coltello al loro interno


Tra i maggiori successi del Mossad c’era stata la volatilizzazione in Turchia di un generale dei Guardiani, Ali Reza Asgari. Teheran ha sempre sostenuto che non si è trattato di defezione ma è stato rapito. Pare che sia stato lui a rivelare particolari cruciali sul programma nucleare iraniano. Altro transfuga eccellente il fisico nucleare Shahram Amiri, che lavorava all’Università di Tecnologia, sempre controllata dai Guardiani. Poi Amiri tornò a Teheran, accolto da eroe, dagli Stati Uniti dove si era rifugiato. Dissero che aveva fatto il doppio gioco. In effetti era stato lui a rivelare che l’Iran aveva sospeso il proprio programma nucleare, e ad aprire la strada all’accordo con Obama, poi disatteso da Trump.

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