Donald Trump parla alla convention libertariana a maggio con alle spalle il motto “diventa ingovernabile” (foto Ansa)

Il terzo partito delle elezioni americane

Michele Magno

In passato i libertari americani riuscirono a influenzare le elezioni. E Trump ha chiesto il loro voto. Che aria tira oltre il bipartitismo

Washington, 25 maggio: intervenendo alla Convention del Libertarian Party, Donald Trump chiede appoggio e voti contro il “tiranno Biden”. Viene ripetutamente interrotto dai delegati, e perfino insultato per le restrizioni anti Covid e l’aumento stratosferico del deficit federale durante la sua presidenza. Abituato a folle osannanti, per il tycoon newyorkese è una doccia fredda. Ma cosa lo aveva spinto ad affrontare una platea così ostile? La risposta è semplice: il sistema elettorale americano. Sistema, come è noto, che si basa sul principio del “Winner Takes All” (il vincitore prende tutto), per cui il candidato che ottiene la maggioranza dei voti popolari in uno stato ottiene tutti i grandi elettori di quello stato (ad eccezione di Nebraska e Maine, che utilizzano un sistema misto). Si può forse capire, allora, perché il tycoon newyorkese abbia accettato il rischio di una clamorosa contestazione. Nelle elezioni presidenziali del 2020, infatti, aveva perso in Arizona, Wisconsin, Pennsylvania e Georgia per poche migliaia di voti, molti dei quali andati a Jo Jorgensen, la candidata del Libertarian Party.

 

Il tycoon fra i libertari è stato perfino insultato per le restrizioni anti Covid e l’aumento del deficit federale durante la sua presidenza

 

Nonostante una drastica riduzione dei suoi suffragi rispetto al 2016, quando Gary Johnson prese oltre quattro milioni e mezzo di voti, quello libertario resta saldamente il terzo partito del sistema politico statunitense. Nato nel 1971, non si può definire né di destra né di sinistra. O meglio, si colloca all’estrema destra sui temi economico-sociali e all’estrema sinistra sul tema dei diritti civili. Si batte affinché lo stato stia fuori dalle stanze da letto e dai portafogli dei cittadini. I libertari di stretta osservanza criticano i repubblicani perché ideologicamente ondivaghi e troppo ossequiosi con la destra religiosa; sospettano dei democratici perché innamorati del big government e delle tasse; detestano i neoconservatori perché favorevoli al welfare. In fondo, i libertari sono insieme liberali classici alla von Mises e Hayek, iperliberisti alla Milton Friedman, antistatalisti alla Murray Rothbard. Considerati freddi economisti oppure bizzarri pensatori, sostengono la moralità del capitalismo perché è la casa più accogliente per la libertà. Una delle eroine del movimento è stata la filosofa e romanziera Ayn Rand, nel cui circolo intellettuale ha mosso i primi passi Alan Greenspan, poi nominato da Ronald Reagan presidente della Federal Reserve.

 

Nel 2016 il candidato Gary Johnson prese oltre quattro milioni e mezzo di voti. Una delle eroine del movimento è la romanziera Ayn Rand

 

Alla periferia del bipartitismo americano, che risale al 1856, stazionano quindi altri soggetti. E’ vero, i “Third Parties” (terzi partiti) hanno avuto un ruolo sempre marginale, ma talvolta non irrilevante. In ogni caso, le elezioni per la Casa Bianca sono una fabbrica di aspiranti presidenti. Nel 2016 sono stati ventotto, addirittura trentasei quattro anni dopo. Spesso sono state candidature a dir poco eccentriche, come quella di Rod Silva, titolare di una catena di ristoranti e capo del Partito nutrizionista contro la cattiva alimentazione. O come quella del rapper e produttore discografico Kanye West, già fan di Trump, fondatore del Birthday Party, che si proponeva di diffondere il verbo di una vaga  “cultura della vita”. 

Tuttavia, anche i terzi partiti culturalmente più attrezzati hanno di fronte ostacoli difficilmente aggirabili. Per essere inseriti nella scheda elettorale, oltre al pagamento di una tassa di registrazione, devono infatti depositare in ogni stato un numero di firme pari a una percentuale dei voti validi espressi nelle elezioni precedenti. Norme che presuppongono una struttura organizzativa capillare, attiva in tutti gli stati dell’Unione. La Corte suprema le ha legittimate per  evitare candidature “frivole e fraudolente”, ma in realtà sono state imposte da democratici e repubblicani per preservare il loro oligopolio politico. Solo nel 1992 l’imprenditore texano Ross Perot riuscì a superare queste barriere grazie al suo cospicuo patrimonio personale. I terzi partiti generalmente non godono invece di donazioni dei grandi gruppi industriali e non dispongono di sufficienti risorse finanziarie autonome, e pertanto riescono a presentarsi solo in pochi stati. Il sistema maggioritario su base statale, quindi, ne limita decisamente la capacità competitiva. Perot, pur avendo ricevuto quasi il 19 per cento del voto popolare a livello nazionale, si piazzò sempre al secondo o al terzo posto nei singoli stati, dopo Bill Clinton e George H. W. Bush, non conquistando nessun grande elettore.

  

Non solo i libertari: nel 1992 l’imprenditore texano Ross Perot riuscì a superare gli ostacoli per candidarsi alla presidenza

 

Dopo la Seconda guerra mondiale, i terzi partiti hanno conseguito risultati apprezzabili solo in alcune realtà regionali. Nel 1948 il suprematista bianco Strom Thurmond, candidato del State’s Rights Party, con poco più del tre per cento del voto popolare fece il pieno dei grandi elettori in Alabama, Louisiana, Mississippi e Carolina del sud. Mentre Henry A. Wallace – leader di una formazione filosovietica – con la stessa percentuale di voto popolare, ma mal distribuito a livello nazionale, non riuscì a guadagnare neanche un grande elettore. Nel 1968 l’American Independent Party del segregazionista George Wallace, per taluni aspetti antesignano del trumpiano “Maga” (“Make America Great Again”), con il 13,5 per cento dei suffragi su scala nazionale riuscì ad assicurarsi 46 grandi elettori.

Quelle dei terzi partiti sono allora solo mere candidature di “disturbo”? In parte è così. Perot favorì la vittoria di Clinton con un programma imperniato sul pareggio del bilancio, tagli al welfare, lotta senza quartiere ai trafficanti di droghe, nazionalismo economico, drenando molti consensi dall’elettorato potenziale di Bush senior. E nel 2000 la stessa sconfitta sul filo di lana di Al Gore in Florida, che gli costò la presidenza, va in buona misura attribuita all’emorragia del voto ambientalista verso il candidato del Green Party, Ralph Nader. Ma nella storia elettorale americana c’è stato anche un episodio “anomalo”. Nel 1912 l’ex presidente repubblicano Theodore Roosevelt, alla testa del Progressive Party, sfidò il suo successore William Howard Taft, che aveva sposato la causa dei conservatori. La corsa per la Casa Bianca fu vinta dal democratico Woodrow Wilson, ma Roosevelt – con i suoi quattro milioni di voti popolari e 88 voti elettorali – tarpò definitivamente le ali alle ambizioni di Taft.

Riassumendo, negli Stati Uniti due grandi partiti monopolizzano la vita politica da quasi due secoli, e pochissimi altri si spartiscono le briciole; ma non è stato sempre così. Ai suoi albori, c’erano il Partito federalista, fondato nel 1789 da Alexander Hamilton, e il Partito democratico-repubblicano, fondato nel 1792 da Thomas Jefferson e James Madison. Conservatore il primo, liberale il secondo. Il Partito federalista riuscì a far eleggere un solo presidente, John Adams, prima di scomparire dalla scena politica intorno al 1820. Più complessa è stata la vicenda del Partito democratico-repubblicano, caratterizzata da continui e aspri scontri interni. Scontri culminati nella scissione del 1824, quando Andrew Jackson fondò il Partito democratico e i suoi oppositori il Partito Whig, che nel 1854 prese il nome di Partito repubblicano. Per un paio di secoli si contenderanno l’inquilino della Casa Bianca. E due simboli li resero immediatamente identificabili: un asinello e un elefante (il blu e il rosso si aggiunsero solo molto più tardi, quando il New York Times cominciò a pubblicare le mappe elettorali con questi colori). 

Il loro inventore si chiama Thomas Nast, tuttora considerato il padre del fumetto americano. Vignettista di Harper’s Weekly, una rivista politica newyorkese, nel 1870 disegnò per la prima volta l’asinello in un cartoon, che alludeva a una fazione antimilitarista dei democratici con cui era entrato in polemica. Questo animale cocciuto, forte e infaticabile catturò subito la simpatia di tutto il partito, fino a diventarne la mascotte. Sempre sulle pagine di Harper’s Weekly, nel 1874 Nast disegnò un grosso pachiderma in bilico sul ciglio di un burrone, con una didascalia: “Il voto repubblicano”. L’immagine satireggiava le inclinazioni assolutiste di Ulysses Grant, che intendeva candidarsi per un terzo mandato presidenziale. Ciononostante, anche in questo caso l’elefante fu poi adottato dai repubblicani come simbolo di intelligenza politica e di retta condotta. 

Ovviamente, terzi partiti o candidati indipendenti esistono anche nelle elezioni della Camera dei rappresentanti, i quali sono eletti in collegi uninominali con un sistema maggioritario semplice (vince il candidato che ottiene la maggioranza relativa dei voti). Resta il fatto che nel cuore del Novecento gli Stati Uniti hanno avuto uno dei sistemi bipartitici più solidi fra le democrazie occidentali. Ma fino agli anni Venti, e in tutto il secolo precedente, i terzi partiti hanno contribuito a introdurre nuovi temi nel dibattito pubblico, dall’abolizionismo ai diritti dei lavoratori, al suffragio femminile, alla tutela dell’ambiente. Poi si sono condannati all’inesistenza o all’irrilevanza, salvo vampate occasionali.  

Per quanti difetti possa avere, questo assetto politico-istituzionale, inclusi i suoi citati elementi di “disturbo”, ha quindi avuto il suo punto di forza nella stabilità. Questa stabilità è oggi a rischio. Gli eventi traumatici del 6 gennaio 2021, che hanno segnato il primo passaggio di poteri non pacifico dai tempi della Guerra civile (1861-1865), hanno aperto una ferita nella democrazia americana che non si è ancora rimarginata. Trump però non è nato dal nulla. E’ solo il sintomo più evidente di fratture profonde: geografiche, demografiche e sociali. I due partiti principali incarnano ormai una contrapposizione tra due visioni del mondo inconciliabili, che può mettere in discussione le regole del gioco democratico. Fra il 2016 e il 2020 i voti a favore dei repubblicani sono diminuiti in tre quarti delle aree metropolitane e aumentati in due terzi delle contee rurali. Questi fenomeni si sono acuiti nel quadriennio passato. E, stando al discorso d’investitura pronunciato a Milwaukee, in cui Trump ha promesso “la più grande deportazione [di immigrati] della nostra storia”, sono destinati ad accentuarsi con la sua l’eventuale vittoria.

  

Candidature “di disturbo”, da quella dell’ex presidente Theodore Roosevelt nel 1912 all’ambientalista Ralph Nader nel 2000

 

Il risentimento che gli elettori rurali conservatori provano verso quelle che percepiscono come le “power élite” cosmopolite, è un dato incontrovertibile. E la scelta come vice di Trump del senatore J. D. Vance lo testimonia emblematicamente. Se, come credono molti repubblicani, l’identità dell’America sarà distrutta dall’immigrazione incontrollata, l’obiettivo di escludere i democratici dal potere viene prima di ogni altra preoccupazione, può risolversi addirittura nella trasgressione delle leggi e nell’insubordinazione della piazza. E se, come credono molti democratici, la “società aperta” voluta dai padri fondatori sarà distrutta dai repubblicani che difendono la superiorità dei bianchi, anche tenere questi ultimi lontani dal potere assume un’importanza “esistenziale”. Beninteso, la maggioranza dei repubblicani non è a favore della violenza, ma l’opinione pubblica è ormai  sempre più contagiata da passioni rabbiose. Ci sono sondaggi secondo cui un terzo dei repubblicani – e un decimo dei democratici – ritiene che “i veri patrioti americani potrebbero dover ricorrere alla violenza per salvare il paese”. Visti gli umori di Trump e la tardiva defezione del suo vecchio competitor, non è chiaro come e chi possa spezzare questa spirale perversa.

Kurt Gödel, analizzando con l’acribia che gli era consueta la Carta del 1787 per l’esame di rito  necessario per ottenere la cittadinanza americana, si convinse che essa non era priva di una grave contraddizione. Perché non escludeva la possibilità del rovesciamento del regime democratico in un regime dispotico. L’eminente logico di Brno si riferiva all’articolo V, che in linea teorica non pone vincoli sostanziali all’emendabilità della Costituzione, e quindi anche alla soppressione della forma repubblicana di governo. In realtà, l’articolo V, una “gabbia di acciaio con sbarre quasi di kryptonite”, secondo l’espressione del giurista Sanford Levinson, rende molto rigida la procedura di revisione. Tant’è che subordina ogni cambiamento a una proposta avanzata da una maggioranza di due terzi del Congresso oppure dagli organi legislativi di due terzi degli stati, che deve essere ratificata successivamente da tre quarti degli stati.

Da “Fuga da New York” a “Blade Runner”, da “Minority Report” alle saghe di “Matrix”, “Hunger Games”, “Divergent” e “Maze Runner”, per citare qualche titolo, il filone distopico della  cinematografia hollywoodiana ha descritto con un certo compiacimento le tendenze autoritarie della democrazia americana. Film di pregevole fattura, alcuni veri e propri capolavori, che hanno sbancato il botteghino. Forse anche perché esorcizzavano il timore degli spettatori, non solo d’oltreoceano, nei confronti di scenari apocalittici. Passando però dai registi agli studiosi del bonapartismo o cesarismo, i più illustri – da Tocqueville a Weber a Franz Neumann – concordano sul fatto che esso è sorto e si è sviluppato in un contesto democratico. Gli Stati Uniti corrono realisticamente questo pericolo? Ne sapremo di più dopo il 5 novembre.