Il profilo

Ecco il tuttofare di Putin mandato a fermare gli ucraini nel Kursk

Micol Flammini

Addetto alla sicurezza, coordinatore in Ucraina, governtaore di Tula, mediatore con Prigozhin, consigliere. Chi è Aleksei Djumin: molto, ma non ancora un erede

Kursk ha il suono di una maledizione per Vladimir Putin. Kursk, nella bocca del capo del Cremlino infatti non esiste e all’avanzata ucraina nel territorio russo attraverso l’oblast di Kursk preferisce riferirsi come “la situazione nelle zone di confine”. Nell’oblast di Kursk le forze di Kyiv hanno catturato centinaia di soldati russi, soprattutto uomini inesperti, perché Mosca ha preferito non spostare dall’Ucraina le truppe meglio addestrate e i mezzi più efficienti. La controffensiva russa è stata chiamata “operazione antiterrorismo”, secondo il codice che il capo del Cremlino segue per i problemi di ordine interno e secondo la dicitura che aveva affibbiato alla  guerra in Cecenia, il suo primo conflitto.
 

A supervisionare le operazioni contro l’esercito ucraino ha messo un uomo di cui si fida molto, non un militare, come si sarebbero aspettati dentro al ministero della Difesa, ma la persona che per anni ha saputo badare alla sua sicurezza: Aleksei Djumin, ex capo del suo apparato di sicurezza personale, mestiere che, agli occhi di Putin, ha svolto così egregiamente da essere stato lanciato in una carriera politica sempre più brillante. Djumin viene proprio da Kursk, è un ingegnere, si è dato alla carriera militare, fino a entrare nel Servizio di sicurezza federale. Si è occupato della sicurezza di Putin durante il primo e il secondo mandato del capo del Cremlino, lo ha accompagnato in giro per il mondo, gli sedeva accanto durante gli incontri con i leader stranieri. Era ritenuto efficiente, serio, premuroso fino a un episodio in cui, agli occhi del presidente, divenne anche fedelissimo: Putin era in montagna, dormiva, quando un  orso iniziò ad avvicinarsi alla sua abitazione, Djumin gli sparò. Il capo del Cremlino si accorse di tutto soltanto al risveglio e vide in Djumin un uomo da premiare. Ha svolto vari incarichi nel ministero della Difesa, è diventato governatore della regione di Tula e dopo le ultime elezioni, Putin l’ha richiamato a Mosca, l’ha voluto accanto come consigliere personale, assieme al suo amico di una vita, il pietroburghese Nikolai  Patrushev.
 

Quando Putin decise di rimuovere dal ministero della Difesa Sergei Shoigu, uno dei nomi più accreditati a prendere il suo posto era proprio quello di Djumin: ma venne scelto Andrei Belousov, un uomo di conti e non di armi. Della Difesa e dei suoi generali, il capo del Cremlino non si fida più e la nomina di Djumin a capo dell’operazione antiterrorismo nella regione di Kursk lo dimostra: a comandare i soldati contro le truppe di Kyiv ci sono i servizi dell’Fsb e il tuttofare di Putin, spostato in tutti gli affari che contano, messo a dirigere situazioni di pericolo e ossessioni.
 

Quando nel 2014 l’ex presidente ucraino Viktor Yanukovich scappò dall’Ucraina, alcuni giornali russi raccontavano che era stato Djumin a organizzare la fuga. Il capo della sicurezza ha negato, ma in Ucraina era estremamente coinvolto, tanto da avere un rapporto diretto con Evgeni Prigozhin, il capo dei mercenari della Wagner che nel 2014 venivano mandati in Crimea, nel Donetsk e nel Luhansk senza insegne militari riconducibili all’esercito di Mosca. Prigozhin e Djumin erano due colonne delle missioni all’estero di Putin e quando venne giù la prima colonna con l’ammutinamento e la marcia dello scorso anno lanciata per protestare contro i vertici della Difesa, fu la seconda colonna a venire in soccorso di Putin: senza armi perché erano tutte impegnate in Ucraina, ma negoziando la ritirata. Non si sa se  Djumin condividesse le idee di Prigozhin sull’incapacità dei vertici dell’esercito russo, ma in questi anni ha dimostrato di rispettare le gerarchie e i silenzi.
 

Difficile che Putin abbia pensato a un delfino, non cerca successori perché non si vede alla fine della sua carriera, ma in questa nomina di Djumin, molti analisti hanno voluto vedere rimandi storici: quando Boris Eltsin scelse Putin. Putin è stato un erede, e sa bene che gli eredi sanno accoltellare chi li ha preceduti. Evita i delfini, preferisce i consiglieri.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)