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L'analisi

Il futuro di Kyiv tra la lunga guerra, l'impresa di Kursk e le scelte dell'Occidente

Marco Mondini

Il conflitto in Ucraina continua e Bruxelles, alla fine, sembra aver capito quale sarà il futuro della guerra, ma restano alcune incognite: cosa succederà dopo le elezioni americane di novembre? Gli europei, poi, sono pronti a rimettere in discussione la pace imperterrita che vivono dal 1945?

Vovche e Prohres. Non è facile trovarli sulla mappa questi due minuscoli villaggi, più o meno cinquanta chilometri a nord ovest di Donetsk. Messi insieme, contano meno di mille abitanti. Vovche ne faceva appena un centinaio prima del febbraio 2022. Valore strategico: nessuno. Eppure quando le truppe russe li hanno occupati, nel pomeriggio del 29 luglio, schiacciando ciò che restava dei due battaglioni ucraini che li difendevano, Mosca ha annunciato la loro conquista con un bollettino dai toni trionfali. A voler essere generosi, i generali di Putin hanno mosso un altro piccolo passo verso occidente, nella lunga marcia verso il fondamentale nodo logistico di Pokrovsk. A voler essere pignoli, questo obiettivo doveva essere raggiunto settimane fa. Ma la fulminea, travolgente offensiva pensata per strappare definitivamente a Kyiv il controllo della sua vecchia provincia di confine si è poi trasformata in uno stillicidio di scontri casa per casa e di avanzate impercettibili, annunciati dai rispettivi contendenti come strepitose e risolutive, vittorie. Oggi una borgata espugnata dai russi, o un elicottero abbattuto dalla contraerea ucraina.
 

Domani una visita di Volodymyr Zelensky in prossimità del fronte per rincuorare combattenti e civili, o l’annuncio esaltante del Cremlino di aver raddoppiato il premio di ingaggio (4.300 euro) per chi si arruola per raggiungere il fronte. Ogni mezzo è buono per guadagnare, o riconquistare, un po’ di consenso. Soprattutto se, come a Mosca, si esclude di poter mobilitare ulteriori cittadini-soldato (nel 2022 la notizia della mobilitazione parziale aveva generato un esodo di giovani) e ci si affida sempre di più a mercenari travestiti da volontari. Quasi mezzo milione, secondo le stime più attendibili. Che non hanno spostato definitivamente gli equilibri sul campo di battaglia. Dal Donbas a nord fino a Kherson a sud, a due anni e mezzo dall’invasione e dopo la disfatta russa nella battaglia per Kyiv,  le linee si sono mosse di poco. Sulle mappe, è quasi impossibile accorgersene. Sembrano sempre di più le vecchie carte della Grande guerra, dove la conquista di una manciata di case o di un vallone veniva pagato con migliaia di morti. E poi il generalissimo di turno esultava per il magnifico slancio delle truppe. “Je les grignote”, io li rosicchio un po’ alla volta, diceva il francese Joseph Joffre all’epoca. Chissà che i comandanti russi non finiscano per citarlo.
 

Questo stallo sanguinoso non finirà domani. Nemmeno dopo la clamorosa offensiva a sorpresa ucraina nella regione di Kursk cominciata martedì 6 e celebrata dai media con una comprensibile (ma prematura) euforia. Certo, ancora una volta i russi si sono fatti cogliere impreparati, dimostrando la rigidità della catena di comando e controllo di un’armata che si è rivelata spesso un gigante statico e dai piedi d’argilla. E sì, il successo dei primi giorni ha suscitato enormi entusiasmi, dal lato ucraino, e generato panico, dall’altro. Ma parlare di una “battaglia di Kursk”, come ha fatto Putin per rianimare il consenso interno o come hanno gridato televisioni e alcuni quotidiani occidentali è, più che esagerato, grottesco. Nel saliente di Kursk, nell’estate 1943, la più grande battaglia di carri armati della storia decise definitivamente le sorti della Seconda guerra mondiale sul fronte orientale, e lo fece al prezzo di (forse) ottocentomila giovani uomini uccisi o feriti. Dopo di che, ciò che restava delle armate tedesche cominciò una ritirata che si sarebbe fermata solo tra le macerie di Berlino, due anni più tardi. Non si ripeterà nulla del genere. Qualunque sia il bottino operativo che l’incursione di Kyiv otterrà, qualche centinaio di prigionieri da usare come moneta di scambio, una centrale nucleare da minacciare per fare paura, un po’ di terra nemica da occupare per prestigio o più semplicemente la dimostrazione al mondo che gli ucraini sono ancora in grado di mordere, non saranno i due o tremila combattenti con alcune centinaia di corazzati penetrati in territorio russo che rovesceranno le sorti del conflitto. Sempre che il risultato finale non  sia l’ennesimo scacco sanguinoso. L’Ucraina non ha uomini da sprecare, non ha mezzi o munizioni da buttar via, e i nuovi equipaggiamenti arrivati (come i tanto attesi F-16) sono pochi e preziosi, e certamente non rappresenteranno a breve un peso decisivo.
 

Ecco, forse è proprio questo l’aspetto più inquietante di tutta la sanguinosa faccenda, e quello che gli occidentali, spettatori disinteressati, sembrano non comprendere. Le perdite massicce (un migliaio di morti e feriti per ogni giorno di combattimenti, secondo una valutazione prudente) hanno poco significato per la leadership del Cremlino, che sul trionfo e la ricostruzione dello spazio imperiale russo ha puntato tutta la sua credibilità e ora invoca la grande guerra patriottica, nemmeno fosse Stalin nel 1941. Dall’altra parte, gli ucraini non sembrano disposti a rinunciare a parti del proprio stato sovrano in nome di una pace (o magari solo di una tregua) inevitabilmente traballante, vista l’inaffidabilità della controparte. “Difficile, molto difficile”, ha dichiarato Zelensky appena qualche giorno fa a un giornalista del Monde che gli chiedeva esplicitamente se fosse disposto a rinunciare alle province già perdute in vista di un negoziato. Così, gli scenari che possono essere dipinti per il prossimo futuro, per quanto vaghi e complicati, hanno tutti un desolante punto in comune: la guerra non sarà decisa a breve, e difficilmente lo sarà sul campo di battaglia. Continuerà, tra molte incognite, nessuna delle quali particolarmente confortante.
 

Prima fra tutte, cosa succederà dopo le elezioni presidenziali d’autunno negli Stati Uniti? Una vittoria repubblicana significherebbe la fine del generoso sostegno americano a Kyiv. Anche se concessi spesso col contagocce, i finanziamenti e gli armamenti dell’Amministrazione Biden sono stati fondamentali per permettere agli ucraini di sopravvivere. L’ultimo pacchetto di aiuti, per il valore di oltre due miliardi e mezzo di dollari, è stato annunciato appena un mese fa, ma c’è da chiedersi quanto arriverà in Europa se a novembre Donald Trump dovesse tornare alla Casa Bianca. Il suo designato vicepresidente, James David Vance, un ex militare specializzato in comunicazione e propaganda, capeggia lo schieramento dei duri e puri che chiedono un rapido disimpegno. “Non mi interessa assolutamente nulla dell’Ucraina”, aveva dichiarato subito dopo l’invasione del 2022. Recentemente si è espresso con toni più pacati, ma non meno  definitivi: Nnon ci possiamo permettere di sprecare tutte quelle armi”. Il Guardian ha definito la sua nomina “cattiva per l’Europa, ma pessima per l’Ucraina”, e siamo ancora nel campo degli eufemismi. Così, la seconda incognita sarà la determinazione degli europei nel continuare ad appoggiare il diritto dell’Ucraina a esistere anche in assenza del contributo statunitense.
 

Certo, l’Unione, non è rimasta immobile in questi due anni. Al contrario. Dai giorni dell’invasione, l’Europa ha cominciato una sua lenta (e silenziosa) ma decisa mobilitazione verso un’economia di guerra. A Bruxelles si sono spesso sentite echeggiare parole d’ordine come “riarmo”, “pianificazione industriale” e persino “autonomia strategica”, anche se questa è una formula che militari e capi di governo pronunciano a bassa voce e con un po’ di imbarazzo, non volendo evocare il fantasma degli Stati Uniti trumpiani pronti ad abbandonare la Nato e gli antichi alleati a se stessi. Ma che il vecchio mondo debba prepararsi a un futuro prossimo in cui la guerra sarà una minaccia costante alle porte, questo invece è molto chiaro ai suoi dirigenti. Uno degli ultimi a dichiararlo autorevolmente, a marzo scorso, è stato Thierry Breton, l’influente commissario francese al Mercato interno, quando ha proclamato che la Commissione si sta dotando degli strumenti per disporre di più armi e munizioni, di migliore qualità e nel più breve tempo possibile.
 

As soon as possible, appunto. ASAP. Come l’acronimo del programma di finanziamento che porterà di qui al 2026 a produrre fino a due milioni e mezzo di proiettili di artiglieria all’anno, doppiando la capacità statunitense ed eguagliando la capacità russa. L’Europa si sta preparando a un futuro oscuro, in cui guerra, violenza e rischi saranno elementi quotidiani. Resta da vedere, e questa è l’incognita delle incognite, se i suoi cittadini saranno disposti a essere altrettanto coraggiosi. Se, dopo aver riconosciuto che nelle pianure dell’Ucraina si è perduta l’illusione della pace scontata che il 1945 pareva averci regalato, gli europei saranno ancora in grado di mettersi in gioco. E battersi, nel caso, per la sopravvivenza della proprie liberaldemocrazie.

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