i negoziati

L'accordo tra Israele e Hamas ha ormai cambiato pelle

Micol Flammini

Non è più un'intesa per liberare gli ostaggi e garantire il cessate il fuoco a Gaza, ma un patto per fermare l’Iran. L'appuntamento a Doha

Basta un attacco hacker efficace a mandare un messaggio e oggi la Banca centrale dell’Iran è rimasta paralizzata per alcune ore, mentre  davanti ad alcuni bancomat di Teheran è spuntato un cartello: “Cari clienti, è impossibile prelevare denaro da questo sportello, perché tutto il bilancio nazionale e le risorse dell’Iran sono stati destinati alle guerre e ai leader religiosi corrotti della Repubblica islamica. Ci dispiace”. Nessuno ha rivendicato l’attacco né si è preso la responsabilità dei cartelli di cui hanno riferito alcuni canali telegram dell’opposizione iraniana e i media di Israele, ma i più hanno pensato che dietro ci fosse la regia dello stato ebraico o dell’occidente, ancora impegnato a tenere fermo l’Iran, a bloccare l’attacco contro Israele che potrebbe trasformarsi in qualcosa di molto più esteso rispetto a  una notte di bombardamenti, come è stato  nell’aprile scorso, quando la Repubblica islamica reagì alla morte di Reza Zahedi, comandante dei pasdaran ucciso a Damasco in un edificio utilizzato dai militari iraniani. Ad aprile andò tutto bene, gli Stati Uniti, il più forte alleato di Israele, temono che questa volta gli errori potrebbero creare una catena di botta e risposta militari difficili da fermare e hanno puntato tutto sulla data del 15 agosto.

E’ l’ultima occasione: si incontrano a Doha, in Qatar, i rappresentanti di Israele, gli americani, gli egiziani, i qatarini, mentre Hamas continua a dire di non credere nel potere negoziale di Washington e non si presenterà all’appuntamento in cui i mediatori hanno detto di essere pronti a mostrare una proposta definita. Prendere o lasciare, gli Stati Uniti non si erano mai spinti tanto oltre, ma ormai l’accordo ha cambiato pelle, è irriconoscibile e gli ostaggi di cui dovrebbe garantire la liberazione e il cessate il fuoco a Gaza che dovrebbe assicurare sono soltanto sullo sfondo. E’ scomparsa la pressione per vedere tornare gli oltre cento israeliani ancora in prigionia, si è silenziata la richiesta della fine delle ostilità nella Striscia: quando si parla di accordo, ormai, si parla di Iran, della sua ritorsione per l’uccisione del leader di Hamas, Ismail Haniyeh,   e si vede nell’intesa tra Israele e Hamas il rimedio per evitare il rischio di una guerra più vasta. 


L’accordo e l’attacco sono ormai collegati, chi si tira indietro da questa equazione rischia di mostrarsi come il sabotatore dell’ultima occasione di evitare il peggio. L’Iran non ha ancora detto in modo definitivo che si accontenterà dell’intesa, anche  il suo gruppo piazzato in Libano, Hezbollah,  vuole vendicarsi per l’uccisione di molti suoi capi, soprattutto per l’eliminazione di Fuad Shukr, il consigliere del leader Hassan Nasrallah, ma eviterà ogni attacco se l’Iran gli dirà di stare fermo. Un accordo per Hamas vuol dire risparmiare la vita ai suoi uomini che sono rimasti sul campo di battaglia, evitare che Israele  continui a distruggere i tunnel che fanno da quartier generale e da rifugio per l’organizzazione, e soprattutto vuol dire riposo per una nuova fase di un futuro attacco a Israele. La guerra a Gaza viene già vista come un episodio, tutti si prenderanno il loro tempo, a Israele spetterà invece  il compito di reinterpretare la sua società, di curare le divisioni, di creare una classe dirigente di cui gli israeliani possano tornare a fidarsi. L’accordo, ammesso che venga accettato, è visto come l’ultima opportunità, rischia però di essere una parentesi, che l’Iran e quello che ha sapientemente chiamato “anello di fuoco” attorno a Israele sfrutteranno per riorganizzarsi. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)