L'editoriale dell'elefantino
Il dilemma israeliano del colpo preventivo come nel 1967
Come il 5 giugno di 57 anni fa, anche oggi ci si interroga se alle condizioni attuali, nella certezza di un imminente attacco dell'Iran, si debba agire in anticipo. Se per certi aspetti il passato può aiutare, oggi Israele è diviso al suo interno e lo scenario internazionale è molto diverso
Dopo il trauma del 7 ottobre, dopo l’abissale guerra di Gaza giunta al 320 giorni e oltre, dopo l’evacuazione di parti della Galilea sotto l’offensiva parallela dei proxy iraniani Hezbollah e gli incendi e gli incessanti bombardamenti su territorio israeliano si moltiplicano in Israele, in questi giorni di assedio e di attesa tra minaccia di rappresaglia da Teheran e negoziato incerto di Doha, le voci favorevoli a un colpo preventivo e devastante di Tsahal. È un problema ricorrente che coinvolge, su posizioni non definibili di destra o di sinistra, l’insieme della classe dirigente civile e militare, compreso il generale Gantz appena uscito polemicamente dal gabinetto di guerra di Netanyahu, compreso il ministro della difesa Gallant spesso in conflitto politico con il premier, con differenze accentuate di valutazione ma con rispetto per ciascuna delle posizioni in campo. C’è ovviamente il ricordo del 5 giugno 1967 quando, nella certezza di un imminente attacco arabo su più fronti, l’aviazione fu spedita preventivamente a distruggere la flotta aerea egiziana con un colpo strategico decisivo ai fini della vittoria nella guerra detta dei Sei giorni. E si riapre così la grande questione di cui tutto il mondo discusse dopo il trauma americano dell’11 settembre 2001: nel diritto all’autodifesa è compreso o no il colpo preventivo quando la minaccia è immediata, palese, e non ci sono altri mezzi diplomatici e politici di farvi fronte?
Quasi un quarto di secolo fa la questione si poneva in un contesto molto diverso. Era legata all’unilateralismo, al ruolo rivendicato di protezione dell’ordine mondiale da parte degli Stati Uniti, all’obiettivo del regime change cioè all’idea che l’unica soluzione duratura e stabile di equilibrio e pacificazione passasse per la riscrittura della mappa autocratica e paraterroristica del medio oriente. Ora è maturata, giusto o sbagliato che sia, l’idea che unipolarismo e funzione internazionalista mondiale degli Stati Uniti vadano scartati in favore di una strategia multipolare, diplomatica nella sua essenza, per limitare i pericoli di una guerra regionale e della escalation militare. Il contesto cambia, il problema resta. Si dirà che Israele è sotto minaccia di rappresaglia e attende con ansia gli eventi perché ha colpito extraterritorialmente i suoi nemici terroristi, violando la sovranità libanese e iraniana. Argomento risibile, visto che il territorio di Israele sovrano è violato quotidianamente dai bombardamenti delle milizie foraggiate e armate dagli Ayatollah e dai residui dell’incursione predatoria e nichilista del 7 ottobre, in provenienza dalla Gaza di Hamas, per non parlare dei pasdaran siriani e degli Houti yemeniti.
Se il problema dell’eventualità di un colpo preventivo resta attuale e percorre, febbrile e parallelo ai tentativi di negoziato, civili e militari israeliani, e opinione pubblica, sono diverse dal 5 giugno del 1967 tutte le variabili decisive (armamenti, tecnologie, una guerra lunga e spossante). Ma si è visto sul fronte ucraino, con l’impresa in corso nella regione russa di Kursk, che l’effetto sorpresa e intelligence, per esempio, non è un’anticaglia di guerra, ha ancora una funzione nonostante tutti i cambiamenti nel modo di difendersi da un’aggressione blindata preponderante. E dunque? Che fare? Questo si chiedono generali, politici, esperti e leader d’opinione, apertamente e chiaramente, in questi giorni. Un fatto è certo. Che una potenza regionale importante come l’Iran, in stato prenucleare, possa impunemente allargare e forgiare e armare i fronti che predicano l’annichilimento di uno stato sovrano come Israele, e che per soprammercato possa minacciare l’attacco diretto a infrastrutture e città, mettendo virtualmente un paese e un popolo in un bunker difensivo, è il prodotto di una situazione in cui la bussola dell’equilibrio e della deterrenza s’è persa. Il negoziato di Doha è importante, la trama di alleanze militari e politiche di Israele non va lacerata con passi impulsivi, è sempre aperta la questione degli ostaggi di Hamas e della loro sorte, ma la rinuncia all’ipotesi di colpire per primi per evitare che un regime fanatico e terroristico minacci la sicurezza di un avamposto occidentale non è contemplabile.
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