la stampa liberal
L'attacco a Bari Weiss racconta tutta la crisi d'identità del New York Times
Il quotidiano americano ha criticato la sua ex giornalista per aver partecipato a un dibattito di un'organizzazione conservatrice-libertaria. E' solo l'ultimo esempio che racconta un posizionamento sempre più settario del Nyt
“So che ci sono persone in questa stanza che non credono che il mio matrimonio dovrebbe essere legale. E va bene. Perché siamo tutti americani che vogliono delle tasse più basse”. L’ha detto lo scorso novembre la giornalista lesbica ebrea e millennial Bari Weiss davanti alla Federalist Society, organizzazione conservatrice-libertaria americana. Questa frase contiene un’idea chiara, un obiettivo onorevole: riportare la politica alle policy e lasciare da parte la politica identitaria che ha sfasciato l’America. Basta litigare su pronomi e genere e colpe ereditate, parliamo di economia.
Questa frase però qualche giorno fa è stata usata dal New York Times (Nyt) per attaccare Weiss. La giornalista americana dopo qualche anno al Times ha fondato The Free Press, media company con 750,000 iscritti che cerca di posizionarsi come lucido contenitore di analisi sullo stato della politica americana. Il lungo pezzo del Nyt a firma di Matt Flegenheimer, intitolato “Bari Weiss sa esattamente quello che sta facendo”, appare come una caccia alle streghe verso quelli che vengono considerati ex progressisti passati dalla parte del nemico.
Il lungo attacco travestito da profilo ha un’eco: come osa Weiss, lesbica ed educata alla Columbia, passare da essere una delle voci più liberal del New York Times a una delle più conservatrici sulla sua nuova testata?. Secondo Flegenheimer, Weiss sta cercando un’audience per la sua media company e per il suo podcast – “Honestly” – attaccando “la sinistra illiberale, i programmi di inclusione, equità e diversità e gli oppositori di Israele”. Flegenheimer attacca Weiss anche perché “lei insiste che non è entrata in questo mondo per i soldi o per lo status, ma è riuscita ad avere entrambe le cose”. Non manca la lista di loschi figuri che vorticano nella trumpland e che, secondo Flegenheimer, è un crimine anche solo incontrare. Infine Weiss viene bersagliata anche per le sue critiche all’antisemitismo contemporaneo che, secondo il Times, sarebbero avvenute “in un ambiente comodo”.
Weiss, che ha anche pubblicato il libro “Come combattere l’antisemitismo” dopo l’attacco omicida alla sua sinagoga a Pittsburgh, nel 2018, dopo l’incursione di Hamas del 7 ottobre ha visitato i kibbutz colpiti, ha fatto reportage dalla Cisgiordania, e allo stesso tempo ha cercato di mostrare le assurdità di alcune opinioni tra le tendopoli dei college Ivy league. Questa aggressività nei confronti di Weiss è solo l’ultimo dei posizionamenti del quotidiano newyorkese su una linea più dura, non solo verso gli ex colleghi con articoli che sembrano le vendette di un ex fidanzato arrabbiato e rancoroso – dopotutto Weiss se n’era andata dal giornale dicendo che veniva bullizzata ed etichettata come una nazista e una razzista. Nei giorni successivi al dibattito tra i due (allora) candidati alla presidenza, Joe Biden e Donald J Trump, il Times aveva riempito le sue pagine di attacchi al presidente Biden chiedendogli un passo indietro, cosa che poi è successa – e non certo per le pressioni della Signora in Grigio, quanto per quelle di Nancy Pelosi e altri dell’establishment dem. Gli attacchi a Biden erano così espliciti e battaglieri che il senatore democratico della Pennsylvania John Fetterman aveva twittato “Fuck that”, con lo screen dell’articolo del board editoriale del Times che chiedeva il ritiro del presidente dalla corsa elettorale.
E’ dal 1956 che il Times non appoggia un candidato repubblicano. Ma non è solo una questione di posizionamento elettorale. AG Sulzberger, il boss del Times, aveva licenziato un suo dipendente, James Bennet, ex direttore dell’Atlantic, perché aveva avuto il coraggio di pubblicare un editoriale di un senatore del GoP. Più tardi, sull’Economist, Bennet aveva scritto che il Times, e in generale tutta la stampa americana, dovrebbe aiutare i lettori ad avere un pensiero critico indipendente. Secondo Bennet è anche colpa della stampa se uno come Trump è stato eletto, perché le sue manipolazioni e le sue menzogne “sono diventate più potenti, dato che i giornalisti hanno rinunciato all’elemento più importante del loro lavoro: la loro credibilità in quanto arbitri della verità e in quanto mediatori di idee”. Qualche settimana fa a Ben Smith, il fondatore di Semafor ed esperto di media (e anche lui ex Nyt) avevamo chiesto come mai il Times fosse diventato così bellicoso con Biden. Smith aveva detto al Foglio: “Il Times sta cercando una sua nuova identità”. E, forse per stare al passo coi tempi, con la polarizzazione sempre più estrema, questa identità sembra quella del troll di internet che non accetta di poter dialogare con chi critica la necessità di indicare i pronomi nelle bio. E con chi, come Weiss, se n’è andata da New York per provare a dialogare con tutte le parti.