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Libertà d'espressione

La lite tra Musk e Breton è un affare grosso, e riguarda tutta la Silicon Valley

Pietro Minto

Per il magnate sudafricano il monito del commissario europeo per il Mercato interno è l'ennesimo tentativo europeo di minacciare la libertà d'espressione. Si complica il clima già molto teso con le big tech americane, prossime a considerare il Vecchio continente come un mercato sempre più marginale

“Non date da mangiare ai troll” è uno dei più antichi adagi del web, eppure è anche uno dei meno ascoltati. Prendiamo per esempio il recente scambio tra Elon Musk, capo di X e ormai sponsor tecno-politico di Donald Trump, e Thierry Breton, commissario europeo per il Mercato interno. Poco prima della diretta streaming in cui Musk ha intervistato Trump su X, lo scorso lunedì, Breton ha cercato di ammonire l’imprenditore con una lettera aperta postata sullo stesso social. Il documento metteva in guardia Musk e ricordava, nel modo più da burocrate possibile, i limiti imposti dal Digital Rights Act (DSA), la recente legge europea sui servizi digitali, soprattutto per quanto concerne la diffusione di “contenuti dannosi”.

Un assist perfetto per Musk, che ha potuto rispondere con un meme piuttosto offensivo contro Breton e dimostrare quanto la sua piattaforma faccia paura alle istituzioni, soprattutto quelle europee, che sarebbero pronte a immischiarsi nel processo elettorale statunitense, minacciando un improbabile bando di X per motivi politici. Nulla di questo è di per sé vero, ma la lettera di Breton si è prestata a questa e altre strumentalizzazioni: un errore politico diventato mangime per troll.

 


L’incidente è avvenuto alla fine di una settimana calda per Musk, che stava attaccando da alcuni giorni il primo ministro britannico, il laburista Keir Starmer, per la gestione delle rivolte xenofobe che hanno colpito diverse città del Regno Unito. Dall’alto dei suoi quasi 200 milioni di follower sul suo X, Musk aveva definito “inevitabile” l’inizio di una “guerra civile” nel paese, aizzando la folla contro il nuovo governo progressista. Al centro di tutto, anche in quel caso, il tema più polarizzante del momento, specie in alcune frange della Silicon Valley, ovvero la moderazione dei contenuti: l’idea, insomma, che siano le piattaforme a doversi dare regole e a implementarle, lottando contro le fake news e vietando l’accesso agli utenti più estremisti e pericolosi. Una via che fu intrapresa da molti social media, tra cui Twitter, dopo le elezioni del 2020 e l’attacco al Campidoglio del 6 gennaio 2021, e che portò al “ban” di Donald Trump, tra gli altri. Il processo di moderazione si arrestò con l’acquisto di Twitter, oggi X, da parte di Musk, che ha riaccolto i bannati ed eliminato ogni limite in nome della libertà d’espressione. Risultato: X, insieme a Telegram, è stata la fonte della maggior parte della disinformazione e del discorso d’odio che ha alimentato i riot britannici; e ogni richiesta di moderazione dei contenuti, come quella del segretario di stato per gli affari interni del Regno Unito Yvette Cooper, viene facilmente ridotta a tentativo di censura da parte dei poteri forti, gli stessi che, agli occhi di Musk, lottano contro lui, X e Trump.

 

È in questo delicato e confuso scacchiere che Breton ha pubblicato la sua lettera, arrivata prima ancora che Musk e Trump parlassero – tra un problema tecnico e l’altro – e dando quindi l’impressione che l’Ue fosse arbitro morale e censore politico, più che un regolatore. Lettera da cui la Commissione europea stessa ha dovuto prendere le distanze: “Per quanto riguarda i tempi e la formulazione della lettera, questi non sono stati né coordinati con la presidente von der Leyen, né con il Collegio dei commissari”, ha dichiarato la portavoce di Ursula von der Leyen, aggiungendo di non avere “nessuna intenzione di interferire con le elezioni negli Stati Uniti”. La lettera di Breton è giunta anche in un momento piuttosto teso nei rapporti tra Silicon Valley, politica e ogni tentativo di regulation, che viene subito etichettato come censura o sabotaggio da investitori di peso nella Valley, come Andresseen e Horowitz, oggi schierati con Trump. Un clima di sospetto soprattutto nei confronti dell’Ue, con le aziende Big Tech sempre più use a lanciare prodotti in tutto il mondo escludendo proprio l’Europa. Lo si è visto con il lancio di Threads di Instagram (sbarcato in Ue mesi dopo il resto del mondo) e, più recentemente, con alcuni servizi AI di Meta, che non saranno disponibili nel continente per via delle regole Ue definite “imprevedibili” dal gruppo.