negli stati uniti
Così Kamala Harris cerca di trasformarsi in una nuova Obama
La campagna elettorale della candidata democratica sfrutta le strategie che portarono Barack alla Casa Bianca, nonostante le differenze tra i due politici. E questo cambiamento spiazza Trump
Vent’anni fa, nel marzo del 2004 un giovane e sconosciuto membro del Parlamento dell’Illinois decise di candidarsi alle primarie democratiche per arrivare al Senato degli Stati Uniti. Con grande sorpresa riuscì a battere gli altri 14 aspiranti senatori, compresi navigati membri del partito che non si aspettavano l’exploit di questo giovane avvocato. La vittoria alle primarie lo porterà a essere scelto a luglio come oratore principale alla Democratic National Convention, una vetrina incredibile, un riflettore davanti al paese, e un salto immediato dentro l’establishment del partito. Con quel discorso inizia la fama di Barack Hussein Obama, che quattro anni dopo diventerà presidente degli Stati Uniti.
Anche quando si candidò alla Casa Bianca non sembrava che avesse una vera chance alle primarie, contro aristocratici della politica Usa come Hillary Clinton – eterna sconfitta – o senatori di lunghissimo corso, vere cariatidi di Capitol Hill, come Joe Biden – che verrà scelto invece come vicepresidente, per bilanciare razza ed età, e quindi la scarsa esperienza a Washington di Barack. Contro qualsiasi pronostico anche lì, Obama riuscì a imporsi contro John McCain al suono di uno slogan come “Change”, alla ricerca di nuove speranze dopo gli anni di George W. Bush e delle guerre in medio oriente, e di “Yes We Can”, quel canto delle folle che era un modo per dire: anche un nero può diventare presidente, l’America sta cambiando.
Famiglia disunita, cresciuto con i nonni alla Hawaii, misteriosi parenti africani, studi di legge ad Harvard, foto dove si fuma le canne, un memoir diventato bestseller – I sogni di mio padre – la storia di Obama è, come molte storie americane, unica. Una vera narrazione di successo personale, di self-made man intellettuale, di giocatore di basket, di simpaticone introverso che è amico delle celebrità, premio Nobel preventivo, presidente che partecipa al programma “Comedians in Cars Getting Coffee” di Jerry Seinfeld, come fosse David Letterman o Louis C. K., e candidato che ha saputo usare bene i social nel momento giusto. Il suo mic drop, il lasciar andare il microfono, come farebbe un rapper, un segno di trionfo, dicendo “Obama out” alla sua ultima cena dei corrispondenti della Casa Bianca, è sembrato all’America un gesto naturale, per niente cringe, perché Obama è sempre stato visto come cool, almeno dai suoi elettori. Non è mai stata una scelta fatta turandosi il naso, come invece è stata Hillary Clinton dopo di lui. Obama era l’outsider nell’èra di internet – l’underdog, si direbbe a Colle Oppio – che ha svecchiato la politica.
La storia personale, il cursus honorum politico e l’immagine percepita di Obama non possono essere più diversi da quella della candidata democratica alle presidenziali di quest’anno: Kamala Harris. Eppure, Harris sta cercando di obamizzare la sua campagna, di ricreare un entusiasmo simile a quello che c’era nel 2008. Harris sta cercando di trasformarsi in una nuova Obama, tentativo che deve durare fino a novembre se spera di battere il candidato repubblicano Donald Trump.
Kamala Harris è stata a lungo considerata la sceriffa della California, ha fatto carriera come procuratrice, diventata poi senatrice per essere poi scelta da Joe Biden come vice nel 2020 per rendere meno bianco, meno maschile il suo ticket presidenziale. Una scelta che si è rivelata più volte sbagliata, perché Harris non piaceva a nessuno, né all’elettorato nero che la considerava responsabile per aver messo dietro alle sbarre i “brothers” per possesso di marijuana, né alla sinistra sandersiana, né ai suoi ex colleghi del Senato, né alle persone che lavoravano sotto di lei nella West Wing, che si dimettevano considerandola una “bulla” e una “persona insicura”. Un membro del suo staff riferì alla rivista Newsweek che “con Kamala devi costantemente sopportare critiche demoralizzanti, oltre alla sua mancanza di autostima”. Nei quasi tre anni di governo Biden, Kamala non solo non è riuscita a diventare protagonista, ma ha ricevuto una percentuale di gradimento bassissima, trasformando uno dei suoi unici compiti – la gestione dell’immigrazione dal fronte sud – in un disastro usato dalla destra per attaccare Biden. “Non venite”, detto con le lacrime agli occhi ai migranti, è la frase che prima di quest’estate ha definito la sua carriera. Poi – e qui si vede il diverso percorso elettorale di Obama, che si è sudato a suon di tweet le primarie contro l’ex first lady Clinton – dopo il disastroso dibattito di Atlanta tra Biden e Trump, Harris è stata trasformata nella retorica dem, dal giorno alla notte, nell’unica persona in grado di fermare il populismo Maga.
Ora nei circoli democratici si sta anche cercando di trasformare Kamala in una figura cool. E così partono i meme, e il riconoscimento da parte della cantante inglese Charli XCX, che twitta “Kamala is Brat”, nel momento d’oro del successo del suo album Brat con copertina verde acido, subito colore unofficial, e per un po’ anche official, della campagna di Harris. E poi le emoji, il cocco e la palma, che riprendono una frase che gli diceva la madre. E anche dalle colline di Hollywood sono arrivate le medaglie, tutto pur di battere Trump. Ecco la solita lista di celebrità progressiste – John Legend, Spike Lee, Ariana Grande, Barbra Streisand, George Clooney – che premia il sacrificio bideniano e accoglie la nuova candidata. Ecco “White Dudes for Harris”, il gruppo capitanato dal dude originale, Jeff Bridges de “Il grande Lebowski”, che con una riunione su Zoom ha raccolto quattro milioni di dollari dicendo “anche ai maschi bianchi piace Kamala”. E appaiono i poster con scritto Mala – Make America Laugh Again, in opposizione al messaggio, ormai vecchio, dei repubblicani, Maga, perché Trump ha detto che “basta guardare come ride, Kamala, per accorgersi che è pazza”, e si cerca di ribaltare la cosa e trasformare un insulto in un punto di forza: “Noi siamo la parte allegra del paese”. Per completare il processo, il grafico-artista losangelino Shepard Fairey in arte Obey, che aveva benedetto la campagna di Obama con il suo poster “Hope” – diventato maglietta, calamita, tazza, icona degli anni dieci – su Instagram ha condiviso un suo ritratto di Kamala con sotto la scritta “Forward”, avanti, dicendo che è orgoglioso di regalarlo alla candidata per la campagna. Un fiacco tentativo di revival.
La ricerca di una obamafication di Harris ha senso non solo per la ricerca di entusiasmo, ma anche per staccarsi da una legacy che può essere pericolosa. Harris sa che non può diventare la bandiera del bidenismo. Per quanto lei stessa abbia detto che Biden in tre anni ha “sorpassato il lascito di della maggior parte dei presidenti che hanno servito per due mandati”, accompagnata da un coro di leader del partito come Chuck Schumer – che ha detto che era dai tempi del New Deal rooseveltiano che non si erano ottenuti così tanti successi legislativi – Harris deve staccarsi dall’uomo che le ha permesso di arrivare lì. Deve cavalcare l’entusiasmo del nuovo, e magari riutilizzando informalmente quel “Change” che ha fatto la fortuna di Obama, e non sembrare la continuazione di una presidenza interrotta dall’età. Sa che non può sembrare il rimpiazzo. Ma la sua obamizzazione non è solo una questione di immagine.
Non appena Joe Biden ha ritirato la sua candidatura, il 21 luglio, a meno di quattro mesi dal voto, Harris ha mandato via la squadra che seguiva la campagna del presidente e l’ha sostituita, pescando nel vecchio team della campagna che aiutò Obama a vincere nel 2008 e nel 2012.
Varie persone chiave del cerchio magico e strategico obamiano sono subito state chiamate dal ticket Harris-Walz. Persone come David Plouffe, considerato dalla stampa il “mastermind dietro alla strategia vincente” delle primarie contro Hillary, che concentrò la campagna “anche sugli stati più piccoli”. Plouffe scrisse anche un libro per spiegare le sue tattiche vincenti per portare Obama alla Casa Bianca. In seguito, convinse Joe Biden a non sfidare Hillary Clinton alle primarie del 2016, per poi iniziare a lavorare per Uber e per Mark Zuckerberg. Harris ha assunto anche Stephanie Cutter – nel 2009, venne definita come “un soldato che dice le cose che il candidato non può dire”, scelta da GQ tra le 50 persone più potenti di Washington. La stratega di Capitol Hill aveva iniziato a lavorare con Bill Clinton per ripulire la sua immagine dopo l’affaire Monica Lewinsky, e che poi è stata a fianco di Obama nello Studio Ovale, aiutando soprattutto a costruire il personaggio di Michelle Obama, diventata tra le first lady più influenti della storia. Harris si è presa anche Mitch Stewart per gestire la campagna negli swing state. Stewart era noto per aver fatto vincere la Virginia a Obama; era dal 1964 che un democratico non otteneva lo stato del sud.
Ex giovani, ex obamiani, ora saranno sotto il comando di Jen O’Malley Dillon, anche lei veterana delle campagne di Barack, che Biden, dopo averla avuta come vicecapo di gabinetto, aveva già scelto per guidare una macchina elettorale che ha 130 uffici sparsi per il paese e oltre 1.300 volontari. Il plot twist dopo il dibattito di Atlanta ha fatto rimettere in questione ogni strategia, e questi uomini e donne ombra dovranno cercare di rendere Kamala più appetibile di The Donald, almeno in quegli stati dove si gioca tutto. Il New York Post di Rupert Murdoch ha addirittura titolato “Obama segretamente sta gestendo la campagna di Kamala”. Non si sa se l’ex presidente sia davvero coinvolto, ma si sa ormai che c’è stato il suo zampino nel ritiro di Biden quella domenica di luglio. E l’endorsement dei coniugi Obama, orchestrato con un video dove i due telefonano a Kamala, è stato fondamentale per spingere quello che viene chiamato “momentum”, uno slancio che si è visto anche nei sondaggi e che ha fatto infuriare Trump. “Io e Michelle ti abbiamo chiamata per dirti che non potremmo essere più fieri di darti il nostro supporto e fare tutto il possibile per farti attraversare queste elezioni fino allo Studio Ovale”, ha detto Obama. “Welcome to Kamalot”, ha titolato il New York Magazine, con una Harris festante.
In realtà Harris, quando aveva provato a sfidare Biden e Pete Buttigieg alle primarie dem del 2020, aveva già tentato una strategia obamiana, ma la cosa non era andata in porto. La sua campagna fallimentare aveva provato sì a usare le strategie obamiane – prendersi l’Iowa, spingere anche sui delegati degli stati solitamente meno attraenti per i candidati – ma mancava sia quel savoir faire personale, sia le coincidenze temporali in un paese non ancora così polarizzato per spingerla oltre uomini della vecchia guardia come Biden.
Un’ulteriore obamizzazione si sta vedendo, secondo il mondo Maga, nel fatto che Harris stia usando molto più di prima l’etichetta di nera. La madre Shyamala Gopalan era indiana, nata nell’ex distretto di Tanjore, il padre, Donald, è giamaicano-americano, e Harris per anni si è presentata come asiatica americana, oltre che come “black”. Trump e i suoi, compreso il suo candidato vice J. D. Vance, stanno dicendo che sta sfruttando in questo momento quasi solo l’etichetta di nera, per cercare il voto afroamericano (che negli ultimi anni si è in parte allontanato dal Partito democratico). “Era completamente indiana”, ha detto Trump, “e ora di colpo ha fatto una virata, ed è diventata una persona nera”. Un collaboratore di Trump per supportare questa teoria ha condiviso un video dove Harris cucina indiano con l’attrice di “The Office”, Mindy Kaling.
Per Trump, Barack Obama è il nemico originale. E’ durante il suo mandato che si è buttato in politica, iniziando tutto con la teoria del complotto sulla nascita non-americana di Obama, che lo avrebbe escluso costituzionalmente dall’essere eletto: il famoso birthter movement, che è stato il principio di Make America Great Again. Alcuni dicono che nelle sue gaffe dove chiama Biden “Obama” ci sia un desiderio nascosto di sfidare alle urne – o in un dibattito televisivo – la vecchia nemesi. Con il ritiro di Biden, dopo aver perso l’uso di “Sleepy Joe” come mantra elettorale, i trumpiani sono costretti a trovare una nuova tattica per attaccare Harris, ma stanno facendo fatica, i soprannomi offensivi che twitta Trump sono fiacchi. L’ultimo, “Kamabla”, non sembra avere alcun senso e si specula su internet quale sia il vero significato.
Kamala sta mettendo in pratica già adesso una lezione di Obama, cioè cercare di prendersi un po’ di voto repubblicano, non alienarsi il centro, non perdere gli indecisi. Obama, per quanto sia stato dipinto come “di sinistra”, è sempre stato un moderato. E lo stesso vale per Harris. E così è partito il gruppo “Republican for Harris”, che cerca di prendersi i conservatori che non sopportano Trump, magari qualche ex elettore di Nikki Haley, l’ultima candidata del Gop a provare a sfidare Trump.
Obama ha solo quattro anni più di Harris – e come hanno fatto notare i meme maker, Harris ha anche la stessa età del suo candidato vice, il papà del midwest Tim Walz (che ha anche la stessa età di Brad Pitt). Le differenze tra Kamala e Barack sono molte, di carriera e di carattere, e soprattutto di fama, ma visto che l’obiettivo del Partito democratico non è tanto legato alle policy quanto a evitare altri quattro anni di Donald Trump alla Casa Bianca, per i dem vale tutto per spingere una candidata detestata o ignorata fino a pochi mesi fa, e trasformarla nella paladina dei diritti e nell’amica delle star di Hollywood. Anche a costo di renderla cool grazie agli orpelli pop. Come dicono gli americani, whatever works.