Il fronte unico

Kursk e le altre lezioni che l'Ucraina ha imparato da Israele

Micol Flammini

Due nazioni sempre più simili che si studiano. I rifugi in casa, l’uso della lingua, i vicini nemici da cui guardarsi sempre. Le due società si avvicinano e basta guardare la scrivania di Budanov per capire cosa possono imparare l'una dall'altra tra deterrenza e passato

Villaggio dopo villaggio, bandiera dopo bandiera, gli ucraini avanzano nella regione di Kursk, oblast  del territorio russo, ma che si lascia attraversare come una terra di nessuno. I battaglioni che sono stati mandati dal capo delle Forze armate ucraine, Oleksandr Syrsky, a colpire la Russia, in attesa che il Cremlino capisca come fermarle si muovono agili e veloci. La sorpresa è stata grande per Mosca, che non molla  il fronte, bombarda le città ucraine ma non blocca i soldati di Kyiv, che procedono, fanno prigionieri, si fotografano di fronte agli uffici della Gazprom, costringendo la Russia  a svelare i suo piedi di argilla e forse a chiamare i suoi cittadini a una nuova mobilitazione. L’occidente guarda l’avanzata nel Kursk strabiliato, gli ucraini la seguono inorgogliti, i russi, nella nebbia fitta della guerra d’informazione, probabilmente, sanno meno di tutti. L’incursione ucraina è riuscita a convincere gli alleati occidentali che Kyiv non è un corpo morente che prima o poi dovrà sedersi al tavolo dei negoziati alle condizioni del Cremlino, può farcela ed è ancora motivata, si merita munizioni, armi, anche i missili da crociera a lungo raggio che l’Amministrazione Biden starebbe pensando di inviargli per dare ai jet F-16, appena arrivati, una potenza maggiore di combattimento. L’Ucraina sa che nessuno si spende per chi perde e c’è soltanto un modo per far capire al nemico che la guerra non è semplice: farsi temere. Rivoltare il paradigma, sorprendere, arrivare all’impensabile nel nome della deterrenza, tutto questo Kyiv sta imparando a farlo in modo eccellente, sta cambiando, si sta rivoluzionando,  diventando sempre più simile a un altro paese costantemente in guerra e che da  anni vive  circondato da nemici un tempo  più potenti: Israele. 


Kyrylo Budanov, capo dell’intelligence militare ucraina e mente di  imprese stupefacenti messe in atto dai suoi uomini in territorio russo, ha una scrivania piena di libri che non mette mai in ordine neppure quando concede delle interviste. Il caos va studiato: oggetti, copertine, ninnoli, sono il segnale di come Budanov trascorre le sue giornate tra il pianificare la difesa dell’Ucraina e  mettersi in salvo dai tentativi di omicidio russi. E’ un uomo che, come ogni capo di intelligence, conduce una vita segreta e accorta, esce di rado dal suo ufficio in cui si è rinchiuso il 24 febbraio del 2022 aspettando l’invasione del Cremlino. Nelle immagini delle interviste, più di una volta è venuto fuori che a portata di sguardo Budanov tiene alcuni libri di Zeev Zabotinski, creatore della Legione ebraica nell’esercito britannico, ideatore della marina israeliana prima ancora che esistesse lo stato di Israele – Zabotinski è morto a New York nel 1940 – sionista,  di Odessa, convinto che gli ebrei avessero  due strade per evitare future persecuzioni: avere uno stato e smetterla di avere paura. Per non avere più paura dovevano diventare temibili e su questa idea si è poi sviluppata la deterrenza dello stato di Israele. Budanov segue lo stesso paradigma, la campagna di alcuni attacchi, come l’uccisione in Russia di Darja Dugina  o l’esplosione del ponte di Crimea, avvenuta pochi giorni dopo il compleanno di Vladimir Putin, servono anche a dimostrare che Kyiv può arrivare ben oltre l’immaginazione di Mosca: non teme, è temibile. 


Alcuni degli ucraini sostenitori di un accordo per il cessate il fuoco  con la Russia, sono consapevoli che si tratterebbe di una pausa.  Sanno che il Cremlino non si accontenterà del venti per cento del territorio ucraino che  occupa, ma ricomincerà ad attaccare.  E poi? “Poi ci sarà di nuovo una guerra”, dice al Foglio Hanna, insegnante di fotografia di Odessa, una delle città più bersagliate dai missili russi e dai droni iraniani. “Vivremo una guerra permanente, dovremo abituarci”.  L’Ucraina sta cambiando volto, l’idea della guerra permanente è fissa nella testa dei  suoi abitanti e contagia tutto, anche le scelte architettoniche. Alcune aree colpite dalla devastazione russa stanno rinascendo  con l’idea che i missili russi potrebbero tornare. Alcune case vengono ricostruite, come a Chernihiv, non distante dal confine bielorusso, dove nelle prime settimane dell’invasione nel 2022, intere aree sono state rase al suolo. I segni della devastazione sono ancora  vivi, Eugenia Novogradska, avvocato appassionata di manicure, ha ricominciato a ricostruire la sua villetta da qualche mese e ha chiesto che ci sia una stanza-rifugio, in cui correre in caso di attacchi, che ancora ci sono e potrebbero esserci per anni. L’idea del rifugio in casa, del pogrib sotterraneo, assomiglia molto all’esigenza che ha portato gli israeliani di dotarsi dei mamad, le stanze rinforzate in cui chiudersi dentro quando suonano le sirene che preannunciano un attacco. L’Ucraina va incontro a una militarizzazione forzata della società, con una popolazione che probabilmente dovrà tornare alla leva obbligatoria, come accade nello stato ebraico, dove i suoi riservisti sono chiamati a ogni crisi, rientrano in Israele anche se sono all’estero, come è accaduto dopo il 7 ottobre, una data che  ha cambiato anche il modo in cui le missioni e l’intelligence israeliane, considerate infallibili, venivano percepite in giro per il mondo. 


Come Israele, l’Ucraina è un paese eterogeneo: ha un presidente ebreo, un ministro della Difesa tataro, un capo delle Forze armate nato vicino Mosca. Come Israele è un paese multilingue, e Leonid Finberg, sociologo ucraino e direttore del Centro per gli studi di storia e cultura degli ebrei dell’Europa orientale, crede che anche le similitudini a livello sociale tra i due paesi aumenteranno: “L’uso dell’ucraino avrà un percorso simile a quello della lingua ebraica in Israele – spiega al Foglio – sarà la lingua della comunicazione esterna, a casa rimarranno le lingue che ogni famiglia è abituata a usare, ma tra i giovani si diffonderà sempre di più l’ucraino come in Israele si è diffuso l’ebraico”. C’è anche un carattere di fondo che rende ucraini e israeliani simili, Findberg lo esplicita con un detto presente nelle due culture: “Sono popoli con la voglia di contestare,  in Israele si dice che dove ci sono tre ebrei ci sono quattro opinioni, in Ucraina il proverbio suona simile: con gli atamani al posto degli ebrei”. Il giornalista del Wall Street Journal Yaroslav Trofimov spiega la sofferenza storica come caratteristica inscindibile dalla capacità di resistenza degli ucraini, un popolo pronto a sopportare perdite atroci perché sono sopravvissuti agli orrori di altri tempi, e lottano per non vederli ripetere. “Tutti sanno cosa è successo ai loro nonni e bisnonni”. Vale per l’Ucraina e vale per Israele. 

 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)