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Dal nostro inviato

Al via la Convention democratica: Chicago cerca di schivare l'incubo del '68

Michele Masneri

I dem riuniti nella città degli Obama sono pronti a ufficializzare la corsa di Harris: giovedì il gran finale con l’accettazione della nomination. Le analogie con la convention che 56 anni fa candidò Humphrey sono molte: i repubblicani sperano in un nuovo macello, ma nulla dev’essere come allora

Chicago. Tutto è pronto nella città simbolo dell’Illinois per la Convention democratica che parte oggi e che incoronerà ufficialmente Kamala Harris a sfidante per la Casa Bianca. Misure di sicurezza come ci si immagina, poliziotti a ogni angolo, Chicago si prepara alla sfida, palcoscenico ma anche protagonista di questo show. Naturalmente è la città degli Obama (l’ex presidente parlerà domani in questo show di cinque giorni, una specie di Superbowl progressista, di Sanremo politico).  Stasera il “superospite” è il presidente Biden, che passerà lo scettro alla ex procuratrice della California e sua vice. E poi ci sarà Hillary Clinton. Mercoledì invece sarà il turno del vice disegnato Tim Waltz, di Nancy Pelosi e di Bill Clinton. Giovedì gran finale con l’accettazione della nomination

La scelta di Chicago non è casuale: oltre a essere la città degli Obama è anche una di quelle protagonista della narrazione catastrofistica da parte della destra trumpista: secondo “The Donald” la città sul lago Michigan è “peggio dell’Afghanistan” e viene sempre vista dal resto degli Stati Uniti come una città del peccato e del crimine, come del resto San Francisco, che è la città da cui proviene Harris, simbolo di tutti i mali del radical-scicchismo. Ma ora cinquantamila persone sono attese allo United Center per questa Convention; e molti protestatari. Il fantasma che aleggia è quello della Convention democratica del 1968, che si tenne proprio a Chicago e portò infiniti lutti. Arrivava come questa dopo un attentato (ma all’epoca fu contro Bob Kennedy, e andò a segno), con le proteste contro la guerra (oggi Gaza, all’epoca il Vietnam) e con un’altra clamorosa coincidenza, un presidente democratico, Lyndon B. Johnson, che non si ricandidò per un secondo mandato e venne rimpiazzato dal suo vice, Hubert Humphrey. Ma nulla dev’essere come allora. I repubblicani ci sperano, che finisca in un macello come allora, i democratici faranno di tutto perché non succeda niente. Il governatore dell’Illinois, J.B. Pritzker (della famiglia che finanzia il premio Pritzker, il Nobel dell’Architettura) ha detto che “non ci sarà niente in comune con gli eventi del ‘68”, che Chicago sa benissimo come gestire eventuali proteste, che semmai il paragone è con la convention del 1986, meno celebre, più tranquilla, che spianò la strada al secondo mandato di Clinton.  

Intanto ieri sera una prima manifestazione pro Palestina ha sfilato lungo Pennsylvania Avenue, circondata da centinaia di poliziotti in bicicletta e sorvegliata dall’alto da elicotteri delle forze armate. In generale però, a parte i soliti striscioni, l’età media dei dimostranti sembrava avanzata e i toni non particolarmente preoccupanti. “Low energy”, si direbbe per usare il tono degli strateghi di questa campagna democratica.

Altre proteste potrebbero venire per i migranti che i repubblicani hanno spedito qui coi famigerati bus. Un parallelo interessante è che proprio in questi giorni la sindaca nera di San Francisco sta spedendo fuori città gli homeless, sempre con i bus. La battaglia politica per queste elezioni si gioca anche nelle città, e sia Chicago che San Francisco corrono ai ripari prima di diventare i personaggi cattivi di una narrazione ostile. Intanto in serata a Chicago è arrivata lei, la protagonista, Kamala Harris: atterrata all’aeroporto O’Hare con l’Air Force 2, e non in bus come taluni ritenevano. Adesso la kermesse può cominciare. 

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).