Kamalanomics parte male

Il controllo dei prezzi e l'agenda “populista aggressiva” di Kamala

Luciano Capone

Harris fa diagnosi errata sull’inflazione in voga nell’ala radicale di Warren e Sanders: è colpa delle imprese. E offre una soluzione ancora più sbagliata: bloccare l'aumento dei prezzi. La domanda è: ma c'è un economista nel suo team?

“Dov’è Jason Furman quando ti serve?”, si è chiesto Greg Mankiw leggendo le idee di Kamala Harris su prezzi e inflazione. Mankiw è un noto economista di Harvard, già capo economista di Bush Jr. (ma ha abbandonato il Partito repubblicano con l’arrivo di Trump), mentre Furman è il suo collega/allievo che è stato capo economista di Obama.

Il problema sono le proposte economiche di Kamala Harris, che la vicepresidente ha espresso sommariamente nei giorni scorsi e che dovrebbe esporre in dettaglio nel discorso di venerdì alla Convention democratica di Chicago. Una su tutte: il controllo dei prezzi dei generi alimentari e altri beni essenziali per fermare l’inflazione, che è uno dei problemi più sentiti dagli americani.

La proposta si basa su una diagnosi errata, ma molto in voga nell’ala radicale del partito di Warren e Sanders, secondo cui la fiammata inflattiva è colpa dell’avidità delle imprese (greedflation). E offre una soluzione ancora più sbagliata: bloccare, a un certo livello, l’aumento eccessivo dei prezzi (price gouging).

L’idea populista di mettere un tetto ai prezzi piace ai circoli più estremi dei democratici, ma ha ricevuto una selva di critiche sia dalla stampa amica che dagli economisti. Sono pochi gli esperti che credono che l’inflazione sia la conseguenza di un eccessivo potere di mercato delle grandi corporation, che consente di aumentare i prezzi per aumentare i margini di profitto. E sono ancora meno quelli che credono che il tetto ai prezzi sia uno strumento utile.

In un recente sondaggio sul tema dell’Università di Chicago, tra gli economisti più importanti al mondo, solo il 24% ha risposto che il controllo dei prezzi può ridurre l’inflazione: ma tra quelli che hanno risposto positivamente, quasi tutti hanno specificato che il controllo dei prezzi per definizione riduce l’aumento dei prezzi, ma sarebbe una pessima idea. Perché il calo dell’inflazione sarebbe solo temporaneo, come accaduto durante gli anni 70, ma ci sarebbero forti distorsioni al mercato che, impedendo alla domanda e all’offerta di aggiustarsi, porterebbero a conseguenze peggiori come la scarsità di beni.

Un giudizio severo è arrivato dal Washington Post, giornale liberal certamente ostile a Trump, che ha definito quella della Harris “un’agenda economica aggressivamente populista”. In un editoriale il WaPo ha scritto che la vicepresidente dovrebbe spiegare agli elettori come una presidenza Harris gestirebbe un’economia che non funziona bene per loro ma “sfortunatamente, invece di consegnare un piano sostanziale, ha sperperato l’occasione in espedienti populisti”.

In teoria, la proposta populista della Harris – che affianca al tetto ai prezzi anche generosi sussidi per la casa e per i neonati – potrebbe essere efficace a intercettare il voto di molti elettori arrabbiati per la perdita di potere d’acquisto. D’altronde accusare il Big Business di avidità ha sempre funzionato e il tetto ai prezzi è una pessima idea di successo da qualche millennio. Ma, dall’altro lato, può anche rivelarsi un boomerang politico.

L’inflazione è già in forte calo, ormai portata a livelli contenuti dalla Fed. Molti elettori moderati ritengono Trump più affidabile di Harris sui temi dell’economia. E, peraltro, proporre un sistema statale di controllo dei prezzi fornisce benzina alla propaganda trumpiana che descrive la “Compagna Kamala” come una “comunista” stile Maduro.

Il piano anti inflazione ha fatto anche emergere dubbi sul team di consiglieri della Harris, in cui non c’è praticamente nessun economista. “Sembrano tutti avvocati”, dice Mankiw, gente predisposta a risolvere i problemi con una legge: “I veri economisti sono più rispettosi della mano invisibile (del mercato) e più preoccupati per le conseguenze indesiderate di una regolamentazione eccessiva”. Dov’è, quindi, Jason Furman quando serve?

L’ex consigliere di Obama, interpellato dal New York Times sul pacchetto della Harris, ha risposto che “la speranza più grande è che finisca per essere solo tanta retorica e nessuna realtà”. Bisognerà però vedere se anche la sola retorica non si rivelerà dannosa.

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali