il racconto dell'inviato

Kamala Harris e il caso del vestito beige. Come Obama nel 2014

Michele Masneri

La novità sartoriale della convention democratica è ovviamente l'abito della candidata presidente che alla serata inaugurale a Chicago si è messa un tailleur pantalone marrone chiaro o beige scuro, insomma un “tan suit”, parola che già rimbomba nelle news room e su cui già si interrogano le migliori menti del paese

Chicago, dal nostro inviato. Sotto il palco Nancy Pelosi, la Sally Spectra del Partito democratico americano, applaudiva col solito applauso a mano orizzontale il suo capolavoro politico, la creazione di Kamala e il golpe gentile con cui ha  mandato ai giardinetti Biden. Applaudiva in tailleur giallo mandarino. E qui non si vorrebbe certo fare il pezzo classico su come sono vestite le donne della convention. Però anche sì: del resto lo si fa anche sugli uomini. E poi  la presenza di tante e tali donne sul palco, un palinsesto quasi esclusivamente femminile, è il vero messaggio disrupting della prima serata di convention. Certo, il gran finale è riservato a un uomo, Joe Biden, però introdotto da non una ma due donne: prima la moglie Jill anzi “doctor Jill”, “la vera roccia”, come ha detto lui, roccia in lamé turchese Ralph Lauren (patriottica e risparmiosa, l’aveva già messo nel 2022 alla Casa Bianca). Poi parla la figlia più piccola Ashley, che gli ha strappato una lacrima; stilista equa e solidale, ha  lanciato nel 2019 il brand “Livelihood” che fa felpe sostenibili i cui introiti vanno ai poveri del Delaware, il loro stato natìo.

Infine il pòro Biden, praticamente oscurato dai palinsesti (ha parlato alle 23 ora di Chicago, le 24 a New York, notte fonda nel resto dell’orbe terracqueo. E secondo il New York Post perfido: dopo l’ora della (sua) nanna. 
Sveglissima invece Pelosi, lei è famosa per i messaggi in codice dei suoi tailleur: ha messo lo stesso, nero, nei due annunci di messa in stato di accusa di Trump tanto che c’è la definizione di “impeachment suit”. Di solito invece il tailleur è bianco nei “big moments” come le dimissioni due anni fa da presidente della Camera, o in occasione dei discorsi sullo stato dell’Unione (comunque due giorni fa il tailleur era un giallo molto pallido, non come il giallo pantone e altre tinte squillanti che tiene per le occasioni frivole come il cameo nella trasmissione di RuPaul “Drag  Race”).  


La novità sartoriale è stata però ovviamente Kamala Harris, che alla serata inaugurale della convenzione di Chicago si è messa  un tailleur pantalone marrone chiaro o beige scuro, insomma un “tan suit”, parola che già rimbomba nelle news room e su cui già si interrogano le migliori menti del paese. Prodotto da  Chloé, cioè un marchio francese (è la seconda volta che Harris porta un vestito di quel brand, la prima in maggio alla Casa Bianca), ma non è questo il punto. Il “tan suit” evoca fantasmi (e anche cazzate, diciamolo) del passato, nello specifico il vestito che Barack Obama mise esattamente dieci anni fa. Il 28 agosto 2014 il primo presidente afroamericano d’America  indossò  il famigerato abito di un colore ritenuto esotico e frivolo mentre annunciava qualcosa su un intervento armato contro l’Isis in Siria, qualcosa che nessuno si ricorda perché tutti si ricordano invece la polemica sul vestito beige. “Mi dispiace ma non puoi dichiarare guerra con un abito come quello”, twittò il giornalista del Wall Street Journal  Damian Paletta. Dissero che era “unpresidential”, nacque l’hashtag #suitgate. Tanto più che Obama aveva giurato di indossare solo abiti blu o grigi. Nacque  “Yes, we tan” (niente meme, non erano ancora nati).  La Fox sempre esagerata: Lou Dobbs si disse “scioccato”. Il deputato repubblicano Peter King: “Unpresidential”. Qualcuno più pratico disse che l’unico problema degli abiti di Obama era che erano “troppo larghi”, come sempre. Ma il problema del fitting maschile è rimasto, anche se di Isis non si parla più, bastava vedere i maschi che si aggiravano ieri nello stadio, con pantaloni tipo acqua in casa su calzini a righe e scarpe marroni. O lo stesso Biden strizzato in quegli abiti slim che l’hanno sempre invecchiato.   


Dunque, il dibbbattito sul tan suit non risparmia nessuno (anche, qualcuno dice che più che beige è “camel”, cammello, e giù a ridere – kamala-camel). Si indaga sulla nuova stilista di Chloé, Chemena Kemali (dunque cammello-kamala-kemali), stilista emergente (amata da Jennifer Lopez e Beyoncé) e definitivamente consacrata da questo endorsement. La scelta cammellata di Kamala può essere vista proprio come un omaggio al padrone di casa, quel Barack Obama che ieri sera al giorno 2 di convention ha finalmente parlato nella “sua” città.  


Dieci anni dopo siamo finalmente liberi di vestirci come vogliamo? Mica tanto se sei il capo o la capa del “mondo libero”. O anche qualcosa di meno. C’è sempre er messaggio. Così era molto politico il tailleur di Peggy Flanagan, vicegovernatrice del Minnesota e co-presentatrice della serata, che se Tim Walz, attuale governatore e vice in pectore di Harris andrà alla Casa Bianca, sarà la prima donna indiana d’America a guidare uno stato (abito bianco e nero di Jamie Okuma, designer nativo americano). 


Infine Hillary Clinton, vincitrice morale,  perfetta nel suo tailleur pantalone crema, di stilista ignoto. I più attenti: con pantaloni bianchi, a ricordare quelli del 2016, quando, ere geologiche fa, a sfidare Trump era lei, invano. Ma adesso ha una luce speciale nello sguardo, regale. Da regina ha perdonato (tutti quelli che l’hanno sempre odiata, tranne Trump) e come le regine ha capito che il segreto è essere sempre identica a se stessa. Del resto l’aveva teorizzato nella sua autobiografia del 2017: “Come donna candidata alla Casa Bianca  scelsi uno stile-uniforme che fosse anche anti distrazione. Non essendoci molto da dire su quello che indossavo, forse le persone si sarebbero focalizzate su quello che dicevo” (certo, per molti/e oggi sarebbe un problema, prima vedere cammello, poi politica, vabbè).

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).