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da Chicago

La Convention democratica a Chicago un po' raduno aziendale un po' messa cantata

Michele Masneri

Le parole, i gesti, il palco e il dietro le quinte della prima giornata dell'evento del Partito democratico americano. Da Gina Raimondo a Alexandria Ocasio Cortez, da Hillary Clinton a Joe Biden, così i dem hanno tirato la volata a Kamala Harris

La prima giornata di Convention democratica a Chicago ha la forma di una specie di raduno aziendale misto a una messa cantata, così anche quando uno si vorrebbe commuovere non ci riesce fino in fondo. La parola “America” viene ripetuta centinaia di volte come se fosse una litania o prodotto da comprare, del resto si è in uno stadio, quello dove giocano di solito i Chicago Bulls. Tutti i testimonial-profeti della convention, da Kamala Harris a Joe Biden, invocano ossessivamente il nome di Donald Trump, talmente tante volte e reo di talmente tante colpe che quasi si ottiene l’effetto opposto, verrebbe da dargli il diritto di replica, di starlo a sentire. Sul soffitto dell’enorme stadio ci sono migliaia di palloncini rossi bianchi e blu, i colori della bandiera, che a un certo punto, si immagina, verranno liberati sul palco e sul pubblico in un finale liberatorio.

La messa-convention un po’ Herbalife viene aperta da un vero cardinale, quello di Chicago, e chiusa da un rabbino: la questione Gaza viene sfiorata varie volte, senza entrare mai nel merito tranne nel sermone finale, quello tenuto dal presidente uscente, che qui si presenta come figura patriarcale (in senso biblico), pronta per i libri di storia. Anche il sindaco di Chicago, afroamericano, ha un’aria da predicatore.

Intanto intorno fervono i commerci, come sempre. Gli stand vendono veri hot dog “Chicago style” a 6,75, e poi una serie di shop tutti automatici dove entri solo strisciando la carta, prendi ciò che ti serve e te ne esci. E la cassa? “Ma no, ci pensano le telecamere, rilevano tutto” dice una umana orgogliosa. Ovviamente tutto lo stadio è orgogliosamente “cash free”, non c’è un posto (ma anche in città sarebbe difficile trovarlo) dove puoi pagare in contanti.

Ma ci sono varie lounge per ospiti prestigiosi, con cibo gratis. “Fermo, dove va?”. C’è un cartello con scritto “Creator for Kamala”, cioè una saletta per sbafatori instagrammatici. “Lo so, è finito tutto”, dice il guardiano-volontario anziano.

C’è anche una saletta creatori-volontari, non abbiamo il coraggio di chiedere chi mai siano.

Intanto noi scriventi stiamo lì attaccati a una ciabatta, nel senso di prolunga elettrica, attaccata con lo scotch - del resto Harris è anche la prima candidata presidente che non ha mai dato un’intervista, è forse la convention della fine del giornalismo scritto.

Harris compare una prima volta alle otto della sera, per un saluto fuggevole, dopo Gina Raimondo, formidabile italoamericana che è segretaria al Commercio e già governatrice del Rhode Island. Poi tante altre donne ganze: Alexandria Ocasio Cortez, accolta con una hola, la prima a nominare Gaza; poi Hillary Clinton in grande forma, che ricorda come all’epoca di sua madre fosse ancora vietato il voto alle donne e come oggi si chiuda (speriamo) un ciclo. Impossibile non pensare al 2016 quando quel ciclo toccava a lei. “Qualcosa sta succedendo in America”, dice, sorvolando, e poi “oggi qui c’è una grande energia”, parola che ricorre ossessivamente.

Scorrono profeti di varia grandezza: l’allenatore di basket degli olimpionici Steve Kerr, un nipote di Roosevelt, il reverendo Jesse Jackson in sedia a rotelle, il carismatico capo del sindacato dell’auto, che pare uno Steve Jobs metalmeccanico. Ragazze che raccontano storie tremende di aborti impediti; perfino un elettore di Trump pentito. Ma poi: “Siamo tutti figli di Dio”, dice il governatore afroamericano della Georgia, tipo Papa Paolo VI.

Infine, la Sacra Famiglia, i Biden. Prima la moglie, “doctor Jill”, tirata a lucido, breve, chissà cosa le passa per la testa mentre racconta che certo, già la prima volta che incontrarono Kamala capirono che era speciale. Poi la figlia un po’ fricchettona Ashley che ricorda momenti salienti di vita familiare (Joe che torna da Washington solo per portarle una torta di compleanno e poi riprende un treno per la capitale. Dice anche che è stato uno dei leader mondiali “della storia”, forse facendosi prendere un po’ la mano). Infine lui, Joe, accolto da un boato e da un’infinita cantilena “Thank you Joe”, con bandierine appositamente preparate forse con senso di colpa dal partito. Anche lui si scatena su Trump, un “loser”, non ha combinato niente, offende le Forze Armate, poi si impappina un paio di volte, scherza sul suo essere sempre dell’età sbagliata (“troppo giovane per fare il senatore, a 29 anni, troppo vecchio ora per fare il presidente”), si congeda: “Ho amato il mio lavoro ma amo ancora di più il mio paese”, poi come un Credo o altra preghiera snocciola dati e percentuali di come il paese è cresciuto con lui. Alla fine l’abbraccio obbligato con Kamala: “Quando dico che il paese è cresciuto con me, intendo anche con lei”, precisa. E chissà cosa pensa davvero. Intanto i palloncini sono rimasti su, li useranno un’altra sera.

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).