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L'editoriale dell'elefantino

Contro l'ossessione del cessate il fuoco

Giuliano Ferrara

Subire la febbre del negoziato facendone un idolo per l’opinione pubblica fa dimenticare che l’obiettivo a Gaza è solo uno: sconfiggere Hamas

La febbre del negoziato per il cessate il fuoco a Gaza è più nebbiosa ancora della guerra. Dovrebbe essere ormai chiaro anche ai più spietati critici di Netanyahu che la situazione di potere e il consenso interno agli stati hanno una relazione legittima, di fatto, con la politica di difesa ed estera delle nazioni. Per mesi abbiamo sentito ripetere: Bibi vuole la guerra per tenersi il posto. Una sciocchezza, una cosa senza senso. A tutti è evidente che, a riscontro simmetrico, l’Amministrazione Biden vuole un accordo per il cessate il fuoco in base a interessi di consenso elettorale, dunque di potere. Ora comincia la filastrocca per cui il premier israeliano punta sull’elezione di Trump e vuole favorirla mantenendo ardente il campo di battaglia e sabotando gli sforzi diplomatici di Biden e della Harris. E anche in questo caso vale perfettamente il riscontro simmetrico: non esiste scelta politica che non abbia ripercussioni necessarie, in un senso o nell’altro, all’interno delle nazioni coinvolte, in relazione diretta alle loro leadership. Anche i tempi e il carattere della minacciata e ritardata rappresaglia iraniana per la liquidazione extraterritoriale di capi terroristi da parte di Israele dipendono ovviamente da calcoli sulla stabilità del regime degli ayatollah, da un gioco di forze relativo al rapporto tra il paese guida e i suoi proxy operativi in Libano, a Gaza, in Cisgiordania, in Siria, nello Yemen. Anche le risposte di Hamas sull’accordo-ponte di Blinken dipendono dalla salvezza del gruppo dirigente dell’organizzazione terrorista e dai calcoli relativi.        

Quando saranno messi da parte questi argomenti propagandistici maligni, questi illusionismi del negoziato e della pace, si vedrà che diplomazia e tregua d’armi sono valori in sé da sostenere con speranza e fattiva passione, ma non a prezzo delle scelte giuste sul tema degli ostaggi e della liquidazione del partito terrorista animato dall’Iran e pronto a ripetere le gesta del 7 ottobre o a riprendere la strada dell’insurrezione suicida a colpi di bombe kamikaze, come minacciava di fare un camion pieno di esplosivo esploso in anticipo senza conseguenze ma in movimento nei pressi di una sinagoga e di uno stadio a Tel Aviv. Subire la febbre del negoziato, soccombere al suo termometro facendone un idolo per l’opinione pubblica, vuol dire ignorare la nuda verità di questa guerra: Hamas e gli altri eserciti di annientamento, promossi e foraggiati dalla rivoluzione islamista di Teheran nel quadro di un progetto che sfida strategicamente l’occidente e anche pezzi rilevanti del mondo arabo-islamico, devono essere sconfitti e i loro ostaggi sopravvissuti devono tornare a casa, che è poi il contenuto politico esplicito, dichiarato (e per Israele di portata esistenziale) della tremenda guerra di Gaza. Quella guerra e quei negoziati non sono pegni per la campagna contro Netanyahu o contro Trump o a favore dell’uno e dell’altro, sono un fatto dirimente alla cui logica le persone e le opinioni devono piegarsi con coraggio e umanità, perché non esistono gli umanitari e i guerrafondai, i buoni e i cattivi della rappresentazione fumettistica andante. L’Iran e i suoi eserciti tributari, con i loro bunker nucleari e la loro rete di tunnel dove si preparano bombardamenti e pogrom, sono il problema.  


Trattarlo attraverso la lente giuridico-diplomatica, edulcorante, e giudicare le cose come se la storia si fosse fermata alle risoluzioni dell’Onu sui due popoli e due stati o magari alla dichiarazione Balfour sui modi della decolonizzazione e sul focolare nazionale ebraico, è un errore e un delitto insieme, soprattutto è una via fallimentare percorsa per decenni, che ha portato alla scomparsa della sinistra pacifista a Gerusalemme, Tel Aviv, Haifa. E di questi fallimenti è costellata la via che ha portato alla radicalizzazione israeliana, alla formazione di un governo sbilanciato verso la retorica biblica del Grande Israele, alla furia belluina delle minoranze colonizzatrici in Cisgiordania. Continuiamo così, a negare la nuda realtà politica che impone di schierarsi e agire in un campo di inimicizia totale, e otterremo ogni giorno di più l’incremento della mentalità apocalittica mascherata sotto le false e bugiarde lenti della questione palestinese. Consolante è che le armate della notte che dovevano assediare la convention di Chicago con orde di filopalestinesi contassero poche migliaia di reduci dalla campagna d’odio antisionista dilagata nei campus. 

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.