Legittimazione internazionale
L'Asia centrale parla e tratta con i talebani. Segue la strada già tracciata da Pechino
In Afghanistan si è tenuta la visita ufficiale di più alto grado da quando i talebani sono tornati al potere. L'ospite è stato il primo ministro dell’Uzbekistan: una spedizione soprattutto commerciale, ma che segue la rotta già tracciata dalla Cina con la nomina del proprio ambasciatore a Kabul nel 2023
Nei giorni scorsi in Afghanistan si è tenuta la visita ufficiale di più alto grado da quando i talebani sono tornati al potere ad agosto 2021. A compiere lo storico viaggio è stato il primo ministro dell’Uzbekistan, Abdulla Aripov, ripartito da Kabul verso Tashkent portando con sé accordi commerciali per 2,5 miliardi di dollari. Una spedizione di natura soprattutto economica, quindi, ma di cui il movimento fondamentalista, alla disperata ricerca di una legittimazione internazionale, non ha mancato di sottolineare anche la rilevanza politica. Al momento d’altronde nessun paese ha riconosciuto formalmente il governo talebano dell’Afghanistan, anche se alcuni passi sono stati compiuti: come la nomina da parte della Cina del proprio ambasciatore a Kabul, avvenuta a settembre 2023, e la contestuale accettazione del rappresentante afghano a Pechino, nominato dai talebani.
L’Asia centrale rappresenta una potenziale via di fuga dall’isolamento per l’attuale regime afghano, considerando che la regione, di cui l’Uzbekistan è il gigante demografico, guarda con grande interesse agli sviluppi che si registrano in Afghanistan. Non è un caso quindi che la repubblica centro asiatica di gran lunga più dinamica dal punto di vista economico, il Kazakistan, a fine 2023 abbia deciso di rimuovere i talebani dalla lista delle organizzazioni considerate terroristiche da Astana, dopo l’inserimento avvenuto nel 2005. Una mossa spiegata dal presidente kazaco, Kassym-Jomart Tokayev, sottolineando l’importanza di sviluppare rapporti commerciali e di cooperazione con il vicino regionale e, soprattutto, facendo riferimento alla consapevolezza che l’attuale governo afghano a guida talebana è destinato a perdurare.
A guidare l’azione dei governi dell’area nei confronti di Kabul è quindi un calcolo a cavallo tra politica ed economia e si riscontra in vari ambiti: ad esempio, l’Uzbekistan si sta rendendo protagonista di una caccia senza sosta di finanziamenti, principalmente in Qatar ed Emirati Arabi Uniti, per realizzare il collegamento ferroviario Termez-Mazar-i-Sharif-Kabul-Peshawar, una rotta che consentirebbe a Tashkent di aprire un canale terrestre col Pakistan attraverso l’Afghanistan. Allo stesso tempo, il governo regionale di gran lunga più critico nei confronti dei talebani, quello del Tagikistan, seppur ospiti i leader dell’opposizione afghana in esilio ha evitato finora di arrivare a uno scontro diretto con il vicino. Anche qui, probabilmente, partendo dall’assunto che un conflitto aperto con una forza politica e militare così resiliente come quella rappresentata dal movimento fondamentalista non porterebbe alcun beneficio al regime di Dushanbe.
Non di sola Asia centrale vive, o tenta di vivere, però l’Afghanistan. Attori con una potenza di fuoco economica e politica ben più significativa hanno messo gli occhi sulle risorse della martoriata repubblica asiatica. Come, ovviamente, la Cina. Dopo quasi due decenni di rinvii, a fine luglio hanno infatti preso il via i lavori per lo sfruttamento del secondo più grande deposito di rame conosciuto al mondo, che si trova a qualche decina di chilometri da Kabul. Pechino, a fronte di un investimento di circa tre miliardi di dollari, potrà usufruire del giacimento, che si prevede inizierà a produrre rame entro il 2026, per trent’anni. Inutile dire che la preoccupazione principale per le autorità cinesi, e il motivo per il quale l’avvio dell’opera è stato posticipato così a lungo, è legata alla sicurezza del sito. Con i talebani al potere, l’Afghanistan è meno interessato da attentati e instabilità interna, ma il controllo del regime di Kabul sul territorio è tutt’altro che impermeabile.
L’ultima occasione in ordine di tempo per i leader del movimento per ribadire la volontà di reprimere ogni forma di instabilità interna si è avuta il 18 agosto, durante le celebrazioni per i 105 anni dell’indipendenza afghana. Un appuntamento triste per la popolazione afghana, che ancor meno della comunità internazionale crede alle promesse finte dei talebani.