Foto Ap, via LaPresse

La convention di Chicago

La politica non è la casa di Barbie. Entusiasmo e scongiuri alla convention democratica

Michele Masneri

Il secondo giorno l'atmosfera è allegra, leggera, frizzante. Ci sono i mattacchioni con le luminarie sul cappello da cowboy, le pasionarie nere per Kamala, un tizio con un cappello a forma di fetta di formaggio. Ma basterà questo entusiasmo per vincere?

Chicago, dal nostro inviato. Certo, c’è l’energia (parola che ricorre ossessivamente),  ci sono i cappellini con le lucine e  le  magliette anche in versione “brat” cioè verde-monella, la moda di quest’estate, indossate da delegati, volontari e varia umanità, molto ambite e però non disponibili sui banchetti di gadget invece tristanzuoli, chissà dove saranno tutte le tazze con scritto “Joe 2024”, al macero, forse avranno un valore tipo Gronchi Rosa. Ci sono gli animali – una signora passeggia nel “perimeter” cioè il blindatissimo parco dello stadio  United dove si svolge questa convention del Partito democratico con tre cani al guinzaglio. E “come si fa a non amare i cani, come possiamo votare un candidato che non ha un cane?”, dice sul palco la presentatrice dello show televisivo Abc “The View” Ana Navarro-Cárdenas , una delle personalità repubblicane pentite che qui abbondano. “La mia cagnolina Cha Cha adora Kamala” (la cagnolina Cha Cha  è famosa di suo, ha un seguito di 34 mila follower). 
Insomma, l’atmosfera alla convention democratica è allegra, leggera, frizzante.  E’ un casino gioioso che monta di giorno in giorno.  I delegati dei vari stati urlano il loro giubilo nel “floor”, la platea, e rimbalzano sui video. 

 

Ci sono i mattacchioni con le luminarie  sul cappello da cowboy, le pasionarie nere per Kamala, un tizio con un cappello a forma di fetta di formaggio (simbolo del Wisconsin). Il trentunenne  Jack Schlossberg, ultimo dei Kennedy, belloccione, star di TikTok, posta reel in cui sta al trucco prima della convention, viene fermato da fan adoranti soprattutto maschi, insomma sembra di essere in una puntata di “Ellen”, il programma di Ellen DeGeneres caro ai democratici che raccontava l’America inclusiva e buona (a proposito, ma l’assordante silenzio di Oprah? La Santa teleprotettrice degli Obama per ora non è pervenuta. In generale l’ordine di scuderia è non esagerare con le celebrità a ’sto giro).

Tutto va bene comunque a Chicago, tutti gli speaker finora hanno raccontato perché Kamala vincerà. Perché è una buona madre (ha detto il marito), una brava vicepresidente (ha detto Biden), un procuratore serio, ha detto Barack Obama, “che non esitava ad andare contro al mio governo quando era procuratrice di stato della California”; una donna empatica che nel mezzo della crisi di Gaza trova il tempo di stare al telefono con la di lui  figlia Ella (“L’empatia è la sua forza”), ha raccontato sempre il second gentleman Doug Emhoff. Addirittura una brava vicina di casa, secondo  qualcun altro. 

Però poi ci hanno pensato gli Obama a raffreddare gli entusiasmi. Prima Michelle, col suo vestito blu scuro “ power navy”, che la solita Vanessa Friedman sul Nyt ha definito “da guerra”, ha gelato la platea: un conto sono le chiacchiere, un conto è la realtà, e la realtà è che i tempi sono strettissimi e la vittoria contro il mostro, Trump, non è per niente sicura. “Dovete scendere in strada, chiamare gli amici, dire a tutti di registrarsi e votare”, ha detto l’ex first lady. E poi Barack: non facciamoci illusioni, sarà una lotta sul filo di lana, “una tight race in un paese diviso”. Lo staff del partito conferma: “Abbiamo tutti un lavoro da fare. Il 2016 è stato molto risicato, il 2020 è stato molto risicato, il 2024 sarà molto risicato. Ci stiamo preparando per una gara che si ridurrà a uno o due voti per distretto”, dice lo stratega di Kamala Harris (e già di Obama) David Plouffe. 

Certo però c’è l’energia, “questa incredibile energia che siamo stati capaci di generare nelle ultime settimane”, dice Obama. Tutti a pensare come sarebbe stato se invece di Kamala-mamala (come, assicura il second gentleman, la chiamano i di lui figli), ci fosse stato il vecchio Joe. Sì, ok, si è capito, sarebbe stata ben altra cosa, tutti lì a vedere quanto regge, gli inciampi, lo United Center invece che un grande beach party sarebbe stato un raduno Brondi. Invece: trionfo di donne, possibilmente non bianche, non wasp, donne che si sono fatte da sole e hanno avuto successo, ognuna con una sua storia. Martedì per esempio ha parlato, applauditissima, Tammy Duckworth, nata in Thailandia, immigrata in America, diventata marine, pilotessa di elicottero, ha perso entrambe le gambe in Iraq.  Storia da film americano: ma il film di Kamala Harris sarà a lieto fine? 

Non è mica scontato. Perché al di fuori della bolla, di questo mondo di donne che sostengono altre donne, possibilmente non bianche, poi gli americani lo voteranno questo plot? Insomma, bisogna evitare assolutamente di illudersi. Qui lo spettro è quello della convention del 2016, quella in cui il partito riteneva di avere la vittoria in tasca; già, chi mai sano di mente poteva votare quel soggettone di Trump? Poi si sa come è finita (chi scrive c’era, in California si andò a vedere lo spoglio elettorale e il giorno dopo sembrava che fosse caduto un meteorite, le università tenevano aperti gli sportelli di aiuto psicologico, insomma sembrava un fenomeno soprannaturale o psichico. Noi, venendo dall’Italia della Dc e di Berlusconi che sempre vincevano ma nessuno li votava mai, avevamo qualche dubbio). 

Oggi  la parola d’ordine è: entusiasmo ma con giudizio, stiamo schisci, c’è ancora tanto da fare. A simboleggiare tutto questo ieri è arrivato il candidato vicepresidente Tim Walz, medioman zero coolness. Speriamo.    


L’ingrato compito di rovinare la festa intanto è toccato agli Obama, padroni di casa e grandi feudatari del partito. “Conosciamo il film, e sappiamo che i sequel sono peggio degli originali”, ha detto Barack di Trump. Sempre con metafora cinematografica, lo storico Niall Ferguson ha scritto su Free Press, il sito-newsletter di Bari Weiss, vivace fuoriuscita del Nyt, che lo scontro tra Kamala Harris e Donald Trump è come quello tra “Barbie” e “Oppenheimer”, i due blockbuster dell’anno scorso. Uno che racconta un mondo da fiaba, tutto donne e canzoncine, l’altro che prospetta una visione cupa e angosciosa del creato,  con maschi da incubo. Se si prendono per buoni i sondaggi attuali, “Barbie” vincerà al botteghino, ha scritto Ferguson. Però quello che aspetta il nuovo presidente americano, chiunque sia, uomo o donna, bianco o nero, tra guerre multiple, Cina, Israele, inflazione, di sicuro non è per niente rosa. E quando si pensa all’energia, viene piuttosto in mente la bomba nucleare.

 


 

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).