La terza notte di Chigaco
I Biden, i Clinton e gli Obama. Come funziona l'investitura di Harris
La struttura dei clan famigliari funziona ancora per i democratici, tra riti e politica. Differenze con i repubblicani. Stasera il palco è di Kamala
Passano i decenni, ma la fiaba che funziona sempre nel Partito democratico americano alla fine resta quella dei Kennedy. Per ritrovarsi uniti intorno a una nuova candidata, i Democrats hanno bisogno dei loro riti di iniziazione e Kamala Harris a Chicago ha appena vissuto il suo. Stanotte il palco sarà tutto per lei, ma come ai balli delle debuttanti di un tempo, per entrare nell’alta società democratica si è dovuta prima far presentare per tre giorni dai clan famigliari che contano: i Biden, gli Obama, i Clinton. Potere politico e potere famigliare si incrociano nel partito che difende la Casa Bianca dall’assalto di un partito rivale dove invece ormai, fatti fuori i Bush, c’è solo una famiglia che comanda: quella di Trump. Per i democratici in un certo senso si tratta di fare i conti incessantemente con l’eredità lasciata dalla dynasty tragica dei Kennedy, dalla Camelot degli anni Sessanta (“Kamalot” ha titolato in copertina il New York Magazine, sperando che la debuttante Harris sia l’erede di quella stagione magica), dalle aspirazioni presidenziali del senatore Ted negli anni Ottanta e anche da quelle dei vari rampolli minori della famiglia. Compresi quelli che si sono mossi fuori dall’ecosistema dei democratici.
Come Maria Shriver quando sposò Arnold Schwarzenegger e si ritrovò così first lady del governatore repubblicano della California. O come il bizzarro Robert F. Kennedy Jr, ancora teoricamente in corsa da indipendente per la presidenza, ma che con ogni probabilità finirà con l’accasarsi con Donald Trump.
Da tre decenni il partito è dominato dalle grandi dinastie. I Clinton che hanno comandato a lungo a Washington anche quando governavano i repubblicani. I Biden che sono su piazza da più tempo di tutti. Gli Obama che sono il brand famigliare più recente e attualmente più potente. Intorno a loro, si muove da altrettanti decenni una famiglia allargata fatta di figure che per sopravvivere hanno imparato a posizionarsi bene tra un clan e l’altro: Nancy Pelosi, Charlie Schumer, John Kerry, Al Gore. I tre giorni a Chicago prima del debutto di Kamala Harris e della sua investitura a nuova leader del partito, sono stati una cerimonia dominata dai clan. La prima sera, quella di lunedì, è stata segnata dalla benedizione dei patriarchi sconfitti, Joe e Jill Biden, che un mese fa si sono dovuti arrendere alle pressioni dei clintoniani e degli obamiani e interrompere una campagna elettorale che si presentava catastrofica. Chicago ha tributato loro un’ovazione, ma a precederli sul palco è comparsa Hillary Clinton, come a voler mettere qualche paletto alla libertà di movimento dell’attuale famiglia presidenziale. Biden nei prossimi cinque mesi di presidenza e anche negli anni di un’eventuale Amministrazione Harris, cercherà di difendere la propria eredità politica dall’invasione degli altri clan democratici. Non c’è mai stato grande amore tra i Biden e le altre due dynasty, soprattutto perché Joe ha sempre vissuto un certo complesso di inferiorità rispetto alla visibilità, alla stima e al glamour che a Washington hanno circondato i Clinton e gli Obama.
Il Day 2 è stato tutto all’insegna di Michelle e Barack, che giocavano in casa nella loro Chicago e hanno dato il vero benvenuto nell’alta società democratica alla debuttante Harris. La rabbia con cui entrambi hanno attaccato Donald Trump, per la prima volta dopo anni di aristocratico tentativo di non scendere al suo livello, tradiscono quanto ci sia in ballo anche per loro nel voto del 5 novembre. Gli Obama hanno rimesso in campo i loro uomini migliori per aiutare la Harris, l’hanno incoronata come erede, le hanno passato il testimone con lo slogan “Yes, she can”. Kamala adesso è una candidata obamiana, più che erede di Biden o di Clinton, e una sua sconfitta sarebbe una sconfitta soprattutto per l’eredità politica di Barack e Michelle.
Mai però sottovalutare i Clinton. Sono stati i primi un mese fa, velocissimi, a dare il loro totale endorsement a Kamala Harris dopo il ritiro di Biden, mentre Obama tergiversava, mediava, cercava di capire quale mossa politica fosse più conveniente. La Harris e tanti con lei nel Partito democratico non dimenticano quel ritardo di Barack. Sarà interessante vedere quale delle due famiglie – i Clinton o gli Obama – avrà più peso nel costruire la squadra di un’eventuale presidente Harris.
E’ significativo per questo che il Day 3, la notte scorsa, sia stato dominato da Bill Clinton e Nancy Pelosi, le vecchie volpi che sono salite sul palco per introdurre il volto nuovo di questa campagna, Tim Walz, il governatore del Minnesota e candidato vice che in tutto questo giro di clan democratici sembra quello più fuori dagli schemi. La Harris, con una campagna messa in piedi in fretta e furia a fine luglio, non può prescindere dalle armate clintoniane, bideniane e obamiane per costruire un governo. Ma a sua volta vanta un piccolo cerchio magico famigliare che, se non è ancora un clan, aspira a diventarlo. La sua principale consigliera è da sempre la sorella Maya, che in qualche modo è del “giro” dei Clinton perché ha lavorato alla campagna elettorale di Hillary nel 2016. L’altro consigliere fidato è il marito di Maya, il cognato Tony West, super avvocato di Uber che ha già avuto un’esperienza di governo nell’Amministrazione Obama, come sottosegretario alla Giustizia, e potrebbe avere un posto da ministro. Chissà che a Chicago non stia nascendo un’altra dynasty democratica.