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Gli ostaggi sul palco della convention, le proteste rimangono fuori

Micol Flammini

La storia di Hersh Polin Goldberg commuove i democratici. Cosa ha mostrato a Israele il raduno di Chicago

Jon Polin e Rachel  Goldberg sono saliti sul palco della convention democratica di Chicago. Sul petto avevano il numero che cambiano ogni giorno e indica il tempo trascorso da quando loro figlio Hersh è stato rapito dai terroristi di Hamas e portato nella Striscia di Gaza assieme agli oltre duecento israeliani, trascinati via dai kibbutz del sud il 7 ottobre. Jon e Rachel sono diventati  oratori eccezionali, difficilmente  avrebbero aspirato a questa dote, difficilmente avrebbero voluto girare il mondo per raccontare come loro figlio è stato preso in ostaggio mentre era andato a una festa a Re’im. Mai avrebbero voluto trovarsi nella loro Chicago per raccontare di come Hersh ha perso la mano mentre gli uomini di Hamas continuavano a lanciare granate nel rifugio pieno di ragazzi inermi. 


L’attacco al festival non faceva parte dei piani di Hamas, ma l’idea di una festa di giovani da massacrare piacque ai terroristi che si trattennero a lungo a dare la caccia ai ragazzi. 

Mentre i due genitori parlavano, nella platea si vedevano le lacrime. Quando i due genitori pronunciavano lo slogan delle famiglie degli ostaggi – “riportateli a casa” – si sentivano gli applausi. Israele, a Chicago, era sopra al palco, le proteste sono rimaste fuori. I delegati “uncommitted” (non schierati) hanno inscenato i loro silenzi con la kefiah in testa e tappandosi la bocca, ma la convention si è ritrovata unita davanti ai due genitori e alla storia del buio che conoscono dal 7 ottobre. A guardare queste giornate di convention non sembra che il Partito democratico con Kamala Harris abbia intenzione di cambiare rotta rispetto alla direzione impostata da Joe Biden, che pure durante il suo discorso di lunedì non ha mai menzionato Israele e ha detto che chi protesta contro la guerra a Gaza “ha le sue ragioni”. Gil Troy, storico israelo-americano e firma del Jerusalem Post, dice  al Foglio che dopo l’apparizione dei genitori di Hersh, la percezione della convention vista da Israele è cambiata drasticamente: “Biden non ha menzionato  Israele perché voleva un discorso perfetto, senza fischi. Quando gli israeliani sentono i leader americani parlare, non prestano attenzione alle parole, ma alla melodia. Biden può usare parole per contestare l’operato del governo israeliano, ma la melodia ci dice che capisce e condivide il progetto dello stato ebraico. Tra i democratici non è l’unico che non ha osato”, dice Troy al Foglio, riferendosi al marito di Kamala Harris, Doug Emhoff, che durante il suo discorso non ha voluto parlare molto del suo ebraismo, o al senatore Chuck Schumer, che ha condannato l’antisemitismo del Partito repubblicano ma  non ha menzionato le correnti antisemite dei democratici. Sul palco della convention è salita anche Alexandria Ocasio-Cortez, una volta outsider del partito che ha imparato a muoversi benissimo da insider. Nel suo discorso a Chicago, mentre per le strade sfilavano le proteste, ha detto che Harris e Biden si stanno spendendo moltissimo per un cessate il fuoco a Gaza e la liberazione degli ostaggi. “I democratici – dice Troy – per vincere guardano i sondaggi, come tutti.  I sondaggi   dimostrano che queste elezioni sono su temi come l’economia e  l’immigrazione, anche tra i giovani, chi voterà, voterà su questo, non su Gaza. L’effetto dei campus e delle proteste è sovrastimato rispetto al fenomeno. Questa è una considerazione politica che i democratici hanno sicuramente fatto anche quando hanno scelto di portare Israele sul palco. La storia di Hersh aveva tutto il diritto di essere raccontata e la reazione è stata forte, lo ha dimostrato la commozione. Poi c’è un’altra consapevolezza che va trasformata in dato politico: molte delle proteste che abbiamo visto a Chicago non sono neppure a favore di Gaza, sono anti  israeliane e antiamericane. Nessun partito può stare ad ascoltarle”. 


In una competizione di dolore non ci sono vincitori”, ha detto Jon Polin. Ad ascoltare lui e sua moglie c’era anche Ilhan Omar, la deputata democratica che durante le proteste nei campus ha aizzato gli studenti e in questi giorni a Chicago partecipa ai ritrovi degli uncommitted. Ha applaudito soltanto quando il padre di Hersh ha detto che è il momento di concludere un accordo per riportare gli ostaggi in Israele e fermare la sofferenza dei civili di Gaza. Alla parola “Gaza”, Omar, ha battuto le mani. Il resto, forse, non lo ha neppure ascoltato. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)