Antony Blicken e Abdel Fattah al Sisi al Cairo (foto Getty)

medio oriente

Le agende di Egitto e Hamas non sono mai state così simili

Luca Gambardella

Sisi è più forte di dieci mesi fa e ora ha un obiettivo ambizioso: negoziare una pace duratura con Israele. Intanto però le trattative sono vicine al fallimento

Anche oggi, al nuovo tavolo dei negoziati iniziato giovedì per cercare un accordo sul cessate il fuoco a Gaza, l’Egitto siederà dalla parte di Hamas. Nel corso del suo ultimo viaggio in medio oriente, il segretario di stato americano, Antony Blinken, ha potuto costatare di persona che il Cairo non è più – o meglio, non è mai stato – un semplice negoziatore, ma piuttosto una parte in causa. Il nodo, per Hamas come per il Cairo, resta la gestione del corridoio Filadelfi, la sottile striscia di terra demilitarizzata che per 14 chilometri divide Gaza dall’Egitto. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu vuole mantenerla anche parzialmente sotto il controllo delle forze israeliane, che hanno già distrutto oltre 150 tunnel usati da Hamas per rifornirsi di armi attraverso il Sinai.

Il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi però non accetta in alcun modo la presenza di truppe israeliane al confine. Uno dei punti fermi su cui non intende scendere a compromessi è l’accordo di Camp David del ’79, che assicura la smilitarizzazione del corridoio e che  tiene alla larga gli israeliani dalle forze armate egiziane che, in base a un altro accordo del 2005, pattugliano la frontiera come forza di deterrenza anti terrorismo. Mercoledì il presidente americano Joe Biden e la sua vice Kamal Harris hanno telefonato a Netanyahu per provare a convincerlo – senza successo – a mostrare più flessibilità. Oltre al corridoio Filadelfi, si è parlato anche di quello di Netzarim, che taglia in due la Striscia da est a ovest, e da dove il premier israeliano non intende ritirare i suoi uomini. E poi della questione dirimente della durata della tregua, che per Netanyahu non deve essere permanente ma temporanea, perché la priorità, per Israele, è continuare a stanare i combattenti di Hamas. Su questo “credo di avere convinto Blinken”, aveva detto mercoledì Netanyahu parlando ai famigliari delle vittime. Funzionari del dipartimento di stato invece hanno detto ad Axios che Blinken non era affatto persuaso e in conferenza stampa un portavoce della Casa Bianca ha definito le dichiarazioni del premier israeliano “massimaliste” e controproducenti. Gli egiziani sono dello stesso avviso: “Gli americani ci offrono promesse, non garanzie”, ha detto una fonte del Cairo ad Associated Press. “Sei settimane di tregua in cambio della liberazione degli ostaggi senza un cessate il fuoco permanente? Hamas non accetterà mai”.

La situazione di stallo non vede svolte all’orizzonte anche perché non emergono alternative. L’Egitto e Hamas vorrebbero ristabilire lo status quo a Rafah come se il 7 ottobre non fosse mai avvenuto, mentre Israele non ha alcuna fiducia nelle controparti con cui è costretta  a negoziare. Men che meno nell’Egitto, che dal 7 ottobre a oggi ha cambiato pelle. Dieci mesi fa il Cairo era sull’orlo della bancarotta, spaventato dallo scoppio della guerra, timoroso di restare isolato a livello internazionale e di dovere placare la rabbia degli egiziani che chiedevano una posizione interventista contro Israele. Oggi invece la situazione è molto diversa. Sisi siede al tavolo dei negoziati con nuove certezze, non ultima quella del sostengo economico offerto da Unione europea e Fondo monetario internazionale in questi mesi. La bilancia dei pagamenti è passata da un passivo di 29 miliardi di dollari a gennaio a un attivo di 13 miliardi di dollari a giugno. Per le casse del Cairo la guerra a Gaza è stata ossigeno puro: “Sarebbe mai arrivato questo aiuto senza il conflitto?”, si è chiesto su X Ziad Daoud, capo economista di Bloomberg. La scommessa dell’occidente per rafforzare Sisi si è rivelata vincente perché un Egitto debole avrebbe reso la guerra a Gaza ancora più lacerante per l’intera regione. Ora però ci sono gli effetti collaterali, perché il presidente-generale vuole uscire dai negoziati con Hamas e Israele con i galloni dell’artefice di una storica pace a lungo termine. Per Sisi, il vero obiettivo non è il cessate il fuoco, ma un accordo per la soluzione “due popoli e due stati”. E per raggiungerlo la permanenza di truppe israeliane a Gaza è inaccettabile. Anche le alternative sottoposte da Blinken, come l’invio di militari americani o dei Caschi Blu per sorvegliare il corridoio Filadelfi, non incontrano il favore del Cairo: Gaza può essere governata solamente dai palestinesi e il coinvolgimento di qualunque altra forza straniera significherebbe indebolire la legittimità della causa. Su questo, le agende di Sisi e del capo politico di Hamas, Yahya Sinwar, sembrano coincidere.

  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.