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Dal nostro inviato

Loghi, meme, cani, un erede. La convention dei “creators for Kamala”

Michele Masneri

Viaggio tra gli influencer, anzi creator, assoldati per la prima volta dal Partito democratico americano per rilanciare la convention. C’è pure un Kennedy, re di TikTok

Chicago, Sono duecento, sono giovani e forti, e postano contenuti sui cani. Alla fine questa sarà ricordata anche come la convention degli influencer, pardon, dei creator. Per la prima volta infatti la convenzione che lancia il candidato democratico alla Casa Bianca ha fatto ricorso a un manipolo di operatori digitali riconosciuti e con patentino. Duecento, appunto, a cui sono stati rilasciati accrediti ufficiali per accedere allo United Center, lo stadio dove fino a ieri si è tenuta appunto la kermesse. Che l’importanza di questo drappello di influencer sia alta lo si capiva salendo al terzo piano dello stadio, quello coi posti riservati alla vecchia stampa scritta. Ottenere gli accrediti per avere questi posti è stato molto difficile, e dopo vari diaboliche email e presentazione di documenti e protocolli micidiali, i vecchi giornalisti scritti venivano fatti accomodare su “posti non assegnati” su gradinate ripidissime, col rischio di piombare di sotto magari in braccio a Nancy Pelosi, e “potreste non avere accesso alla corrente”, ci avevano messo in guardia, cosa che diventava presto il vero incubo, perché tutti stavamo lì a cercare di infilare i nostri pc e telefoni con le varie prolunghe e accrocchi in ciabatte sparse con entusiasmo dai volontari e legate con lo scotch, mentre il wi-fi andava e veniva.

Per arrivare al terzo anello, però, a parte i numerosi stand di hot dog e pop corn sovrapprezzati e indigeribili con cui ci siamo nutriti in questi giorni c’era, molto visibile, una “creator room”, tutta bella colorata, con buffet all you can eat: per loro, i creator. Cibo gratis, musica, bibite, un buttafuori all’entrata, e dentro tanti ragazzotti e ragazzotte dall’aria simpatica che si fotografavano davanti a una parete attrezzata coi loghi “Creators For Kamala”. E non che fosse l’unico dei “club” privati della convention, figuriamoci, banche e tv e altri poteri forti e meno forti ospitavano vip e semivip, ma la tribunetta di giovani sbafatori instagrammatici davanti alla caienna dei giornalisti scritti era un messaggio abbastanza chiaro. Se ci mettiamo il fatto che Kamala, come una Giorgia Meloni qualsiasi, non ha ancora concesso un’intervista da quando si è candidata, come dire, abbiamo capito il messaggio. Ma qui non si vuol fare, pur magari essendolo, i vecchi boomer o tromboni che “signora mia, ai miei tempi”, e sicuramente i giornalisti dell’oscuro giornale europeo avranno meno “accesso” di pregiate testate americane, è solo curiosità. Provo a scrivere a Cayana Mackey-Nance, giovane della Z generation afroamericana che è l’incaricata di questa campagna influenceristica del Partito democratico, ma nessuno risponde alle email (come nessuno in generale risponde a nessuna richiesta dei giornalisti, qui). Provo a entrare allora, nella lounge dei creatori, mentre risuona la musica, sembra un po’ la sala dell’Ikea con le palline dove i genitori depositano i bambini. Il buttafuori prima mi respinge, poi quando gli chiedo se posso parlare con qualcuno dei creator mi fa cortesemente entrare.


“Vuoi fare un po’ di stampa con un giornalista italiano?”, chiede mentre quelli confabulano tra loro. Una bionda segaligna che avrà vent’anni dice sì, poi le chiedo: ma è la tua prima convention, lei si insospettisce: do you have political affiliations? (come nella domanda che ti fanno al controllopassaporti), “devo chiedere al mio publicist”, al mio ufficio stampa, e se ne va. Il buttafuori gentilissimo chiede ad altri creator se vogliono “fare un po’ di stampa italiana”, si propone un nero gigantesco e simpatico, si chiama Jason Linton, nome del profilo Dadlifejason, ha 1,3 Milioni di follower su Instagram. “E’ veramente incredibile che uno come me possa essere qui”, dice. “Io posto contenuti che riguardano la mia famiglia, in particolare il tema dell’adozione, è molto importante per noi, per le nostre voci che sono voci comuni d’America che per la prima volta vengono ascoltate”. Come è arrivato qui? “Ho avuto modo di conoscere il second gentleman a Washington, gli sono piaciuti i miei contenuti e mi hanno chiamato”. Ma non mi intervisti? “Sì, lo sto facendo”. Mi guarda il telefono che giace tra le mie mani. “Ah, scritta!”, si illumina, come se fosse il massimo dell’esotismo. Amazing!

  


 

L’altra che mi parla si chiama Abiola Agoro, ha grandi occhiali e l’aria allegra, “tu come ti chiami scusa?”. Michele, dico, poi dico Michel, perché per gli americani è più facile. Lei mi guarda serissima. “No, Michele, devi essere orgoglioso del tuo nome e di ciò che sei. Se è Michele è Michele”, dice. Grazie, oggi sono una minoranza oppressa anche io. Lei ha solo 31 mila follower. Di che si occupa? “scuola, istruzione. E cani”. Cani? “Perché no? Sono così carini!”.    

“Questa convention passerà alla storia, così daremo un posto in prima fila ai creator”, aveva detto Matt Hill, uno dei capi della comunicazione della convention. “I democratici arriveranno agli americani dove gli americani sono, con gli strumenti per raccontare le loro storie” (non si capisce se le storie degli americani o dei democratici, se stories o storie, boh).  Comunque, più che in prima fila, i creator vanno proprio sul palco.  Il primo giorno dal palco ha parlato Deja Foxx, 24 anni, filippina di origine, già collaboratrice di Harris quand’era senatrice, ora attivista social per i diritti delle donne. Il secondo Nabela Noor, 3 milioni di follower su Instagram, “lifestyle e beauty creator”, origini giamaicane e indiane, specializzata in contenuti sulla bellezza e tempo libero, è di religione musulmana e fa un Instagram di case un po’ da ricchi e alla convention nelle sue stories ha taggato Abercrombie e Hotel Intercontinental che forse la ospitava e #artistiperilcessateilfuoco mentre fa le prove sul palco, padrona del palazzetto. 

Ovviamente i democratici stanno investendo molto sulla comunicazione digitale. Harris è già stata definita “Queen of meme”, e i loghi “brat” verde e quello della palma e della noce di cocco compaiono sui profili di tantissimi americani
Il cocco si riferisce alla storiella sulla mamma di Kamala che le aveva detto da bambina (“Non so cosa c’è che non va in voi ragazzi. Credete di essere appena caduti giù da un albero di cocco?”). Spesso la noce di cocco compare accanto alla fetta di anguria che significa Palestina, ormai è una frutteria di meme). Ma la frutteria di meme che è questa convention segue una strategia precisa.  

 

Mancano solo poco più di 70 giorni alle elezioni e “non si sa quanto potrà continuare ad andare avanti senza scendere nei dettagli sul suo programma”, dice al Foglio un diplomatico che segue la convention. In effetti a parte qualche vaga posizione sulla classe media, nessuno sa bene cosa intenda fare Kamala su Israele, Ucraina, Cina, ma anche problemi interni, l’economia, le tasse. Così i mille discorsi sentiti qui, tutti edificanti, con le benedizioni del pope greco, del vescovo cattolico, del rabbino, un colpo pro Gaza e uno contro Trump, sembrano fatti apposta per essere spillolati a diversi pubblici, che non si devono incontrare mai. La convention spillolata sembra fatta apposta per essere distribuita sui cellulari di ognuno di noi secondo quello che ci piace. “Abbiamo delle comunità che ingaggiamo e con cui condividiamo valori”, ha detto Noor.  

“L’opinione pubblica come l’abbiamo intesa nel Novecento non esiste più, sono solo una somma di individui ognuno con le sue posizioni e idee”, dice il diplomatico un po’ sconsolato. Se la società è sbrindellata, perché mai un candidato dovrebbe confrontarsi con un vecchio arnese orizzontale come un giornale, con la mediazione di un fastidioso giornalista? Ben vengano  community ingaggiate che poi si spera vadano pure a votare. Secondo il Center for Information and Research on Civic Engagement and Learning, il 70 per cento dei giovani  hanno preso informazioni dai social, nelle elezioni del 2020.

Lo spillolamento sembra funzionare perché non crea conflitti anzi li appiana. Le tanto temute proteste, fuori, sono patetiche, le migliaia di poliziotti in tenuta antisommossa guardano con tenerezza le decine di manifestanti pro Gaza. “Genocidio, genocidio”, dicono quei quattro gatti, ma nessuno se li fila. Meglio l’anguria.

Intanto c’è una gerarchia anche tra gli l’influencer, pardon creator. Jack Schlossberg, trentunenne, figlio di Caroline Kennedy ed Edwin Schlossberg, è il creator ereditario. Nipote diretto di John e Jackie, che erano i suoi nonni, qui ovviamente è trattato come un principe del sangue. E’ la versione rivisitata e aggiornata di John John Kennedy, belloccio ma meno maschio alfa dello zio, ha 360 mila follower su TikTok. Protagonista di un video virale in cui cantava in mood molto brat, viene fermato continuamente tra i corridoi dello stadio da giovani fan e vecchi membri del partito adoranti.  Posta foto di sé al trucco, o con diversi vip come Marisa Tomei o Eva Longoria, passa dal podio allo studio televisivo della Cnn, è “internet It boy” del momento. Ha messo una foto di Nancy Pelosi che gli tocca la spalla, accostata a una simile in cui era suo nonno, JFK, a toccare sulla spalla una giovane e intimorita Pelosi. Ma tra i suoi contenuti ci sono selfie in mutande, in bici, e poi con Kamala, con Biden, col marito di Kamala. Uno dei più cliccati è quello in cui balla alla maniera di Michael Jackson al supermercato. Autobiografia del potere d’America, è stato appena stato nominato “corrispondente politico” per Vogue America. Un giornale scritto, ohibò, si è fatto tutto il giro. La motivazione: “Ha saputo portare levità in un momento storico di particolare pesantezza”.  Il creator ereditario sguazza solo nel “floor”, la platea, però. Non si mischia ai suoi simili parvenu, e al terzo piano non ci mette proprio piede.

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).