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Il dettaglio fatale

Bastano 47 secondi per decidere un'elezione. E Kamala Harris lo sa bene

Siegmund Ginzberg

Quando Harris diventò procuratrice generale della California era sfavorita, finché il suo avversario non commise un errore fatale concentrato in meno di un minuto. Ora che recupera nei sondaggi tra i dem c'è ottimismo. "She can", ha detto Obama a Chicago. Ma attenti: è sempre possibile che she can not

Trenta secondi. O poco più. E’ quello che in America ci vuole per perdere o vincere un’elezione. Kamala Harris lo sa bene. Succedeva nel 2010. Lei era agli inizi della carriera politica che l’avrebbe portata ad essere nominata vicepresidente, e ora candidata alla presidenza. Si votava per la carica di procuratore generale della California. In America i giudici sono eletti. Sono politici per istituzione. Lei era in svantaggio. Faticava a scrollarsi di dosso l’etichetta di eccesso di “liberalismo”, lì sinonimo di estremismo di sinistra. La stessa che ora le appiccica il suo avversario Donald Trump. Le finanze della sua campagna erano agli sgoccioli, praticamente sull’orlo della bancarotta. Aveva un avversario repubblicano formidabile, popolarissimo: Steve Cooley, il procuratore distrettuale di Los Angeles. Uno che aveva fama di mandare in galera a destra e a manca, senza guardare in faccia nessuno. Specie i politici corrotti e le celebrità (fu lui ad emettere il mandato di cattura per il regista Roman Polanski, accusato di stupro di una minorenne). Cooley era dato per stravincente. Finché commise un errore. Uno solo, concentrato in 47 secondi di soundbite

Nel corso dell’unico dibattito tv con la Harris, un giornalista del Los Angeles Times gli aveva chiesto se pensava di cumulare o meno la pensione da procuratore distrettuale con lo stipendio da procuratore generale della California. Lui aveva risposto senza esitare: “Sì, certamente. Me la sono guadagnata. Ho assolutamente guadagnato i diritto pensionistici che ho acquisito. Certamente ne farò uso per rimpolpare lo stipendio incredibilmente basso che viene pagato al procuratore generale”. Era una risposta sincera. Data senza pensarci su. Gli fece perdere l’elezione.

“Avevo risposto onestamente. Fu un errore. Molti mi fecero poi notare che avrei potuto svicolare”, disse Cooley col senno di poi. Il procuratore distrettuale di Los Angeles allora guadagnava 292.300 dollari l’anno. Aveva alle sue dipendenze 1.000 sostituti procuratori, 300 giudici inquirenti, uno staff di 600 specialisti e impiegati. Il procuratore generale della California guadagnava la metà, 150.000 dollari l’anno. Il reddito medio di una famiglia californiana era allora di 54.280 dollari. 

La fortuna di Cooley fu che quasi nessuno al momento si era accorto dello scivolone. La sua sfortuna fu che l’avversaria si chiamava Kamala Harris. Quando l’intervistatore chiese se voleva aggiungere altro sull’argomento lei, con la sua caratteristica risata, si era rivolta al suo rivale: “Vai Steve! Te lo sei guadagnato!”. E non aggiunse altro. Si guardò bene anche dal polemizzare sull’argomento propagandistico principale della campagna avversaria, l’accusa di essere debole e permissiva nei confronti dei criminali e contraria alla pena di morte. Martellavano su tutte le tv con la mamma di un agente ucciso in una sparatoria, che accusava la procuratrice Harris di non aver chiesto al processo la pena di morte per il colpevole dell’omicidio di suo figlio. Kamala fece qualcos’altro. Investì immediatamente (il tempismo è tutto, in politica come in guerra) tutti gli spiccioli che restavano nelle casse della sua campagna elettorale in un filmato di soli 30 secondi. Solo la domanda del giornalista e la risposta di Cooley, tale e quale, senza altri commenti, eccetto una singola scritta finale sullo schermo. In bianco su sfondo nero: “150.000 dollari all’anno non gli bastano?”.

Cooley, che sembrava imbattibile, perse. Sia pure per poco, 4.368.617 voti contro i 4.443.070 della Harris, una differenza dello 0 e virgola. Ma nella contea di Los Angeles, dove Cooley era dato vincente di 10 punti, la Harris lo schiacciò con un distacco di 14 punti percentuali. Cooley ci mise tre settimane prima di concedere la vittoria alla rivale. Fosse stato Trump, a Los Angeles ci sarebbero state le barricate. La Harris iniziò così la sua carriera politica, che sarebbe stata segata prima ancora di cominciare se avesse perso. Cooley aprì un fiorente studio legale, che ancora oggi, nella pubblicità, promette consulenza a quelli che prima mandava in galera. Ottenne insomma quell’agognato aumento di reddito che lo aveva portato alla perdizione politica.

C’è stata la Convention democratica a Chicago. Ha fatto né più né meno di quello a cui servono le convention. Un’iniezione di entusiasmo. Una dimostrazione di unità (che non è sempre scontata), o almeno di compromesso tra le diverse anime. Un’esibizione di identità. Rivolta soprattutto ai propri elettori. Meno a quelli che hanno già deciso, o sono orientati a votare per la controparte. Quanto agli indecisi, quelli da cui dipenderà l’esito in ultima istanza, non basta galvanizzarli, bisogna anche convincerli. C’erano e hanno parlato tutti i Big. Qualcuno, come il vecchio Bernie Sanders, si è speso nel perorare un programma nettamente alternativo a quello degli avversari. Altri meno: la prima regola è non perdere voti per strada. Vuoi non perdere le elezioni? Evita se possibile di parlare di tasse e di immigrati, ricorda di tanto in tanto il vecchio e saggio Prodi. Ma c’è un punto su cui hanno voluto insistere nomi del calibro di Barack Obama e Hillary Clinton: non dare mai per scontato che si vince. La Clinton ne sa qualcosa. Era nel 2016 data come vincente in tutti i sondaggi. Ebbe alle urne 3 milioni di voti più dell’avversario Trump. Ma Trump aveva vinto perché aveva più “grandi elettori”, quelli che stato per stato vanno tutti a chi localmente arriva primo. Il sistema elettorale americano non ha “coalizioni”. La coalizione si fa o si disfa in modo diverso: si tratta di indovinare il mix vincente negli stati in bilico. Obama è stato ancora più esplicito: “Non fate errori: sarà lotta dura (it will be a fight). Per quanto sia stata incredibile l’energia che siamo stati in grado di generare nelle ultime settimane, nelle adunate e nei simboli, questa resta una corsa testa a testa, in un paese diviso”. Insomma, She can, ma attenti, è sempre possibile che she can not.

Intanto le cose stanno andando meglio per Kamala Harris che per Donald Trump. Basta guardarli in faccia. Il Donald ha sempre più la faccia scura. E’ sempre più arrabbiato, ingrugnito, immusonito. Non una volta che lo si veda divertito, sorridente. Non può essere solo posa. E’ sempre più incupito, come uno che era certo di vincere, e ora vede la vittoria sfuggirli di mano. Loser, perdente, è uno dei peggiori insulti americani. Anche se recitare da cattivo fa parte della cifra del personaggio. Come per i wrestler, che sul ring minacciano continuamente di spaccare in due l’avversario, e facendo la faccia feroce incantano gli spettatori. Non è uno sport che mi faccia impazzire. Sa di finto lontano un miglio. I lottatori talvolta si fanno male, sanguinano per i colpi che gli lacerano il sopracciglio. Ma è molto americano. Gli piace da morire. 

Al contrario di Trump, ora Kamala Harris sorride. Anzi talvolta ride rumorosamente. L’avversario gliel’ha rimproverato. “Ha la risata di una pazza”, ha detto di lei Trump. Ma la risata sembra autentica, non forzata, finta. Se è recitata è recitata bene. Non ricordo che la si vedesse ridere, e neanche sorridere spesso quando era vice all’ombra di Biden. Alla convention, Bill Clinton l’ha salutata come “il presidente della gioia”. Sbaglierò, ma agli americani piacciono i presidenti ottimisti. Kennedy sorrideva, mostrando denti bianchissimi (“denti bianchi di cane” scrisse un poeta di lingua spagnola nell’epoca in cui gli Stati Uniti minacciavano Cuba). Il suo ottimismo travolgente, giovanile, aveva avuto la meglio sulla seriousness di quel musone di Nixon. Ronald Reagan piaceva perché rideva, raccontava barzellette e sprizzava ottimismo da tutti i porti. Vinse sull’onda dello slogan, rosa come lo sfondo color aurora dei telegiornali del mattino: “It’s Morning in America”.

Kamala sempre più sembra avere il vento in poppa. Ha recuperato lo svantaggio nei sondaggi che aveva Biden. Anche negli Stati in bilico, quelli da cui dipenderà l’esito. Con apparentemente una sola eccezione: la Georgia, cuore duro del sud. Last but not least, nell’ultimo mese la Harris ha continuato a raccogliere quattro volte più contributi per la campagna elettorale di Trump. Kamala ha anche il vantaggio di aver scelto il suo vice per ultima, mentre Trump l’ha scelto quando pensava di dover affrontare Biden. Anche se c’è chi dice che i vice non contano molto nell’orientare l’elettorato. 
L’America industriale e tecnologica dovrebbe continuare a stare coi democratici. Sono gli stati più popolosi e più ricchi. Ma il Texas, tradizionalmente conservatore e repubblicano, che una volta era terra di petrolieri, cowboy e populisti sfegatati, sta da anni prendendo punti sulla California. Non a caso Elon Musk vuole spostare il suo quartiere generale in Texas. Basta guardare una qualsiasi cartina della distribuzione delle preferenze elettorali – sono isole blu (il blu è il colore dei democratici) in mezzo ad un mare di rosso (il rosso è tradizionalmente il colore che designa i repubblicani). L’America profonda, conservatrice, che ce l’ha con i neri e i diversi, sta con Trump. Su questo nessuno può dubitare.  Bisognerà vedere come voteranno le donne, i giovani, gli ispanici, i neri, i “dimenticati”, gli arrabbiati che nel 2016 avevano fatto il successo di Trump. Nel 2020 i diciottenni avevano votato in maggioranza per Biden, ora ingrossano ancora le fila degli indecisi. 

A chi sostiene Trump gli importa poco delle disavventure giudiziarie del proprio idolo. Per mezza America sono un titolo di merito, la prova che quello è un perseguitato politico. Non gli importa molto che l’economia americana abbia continuato ad andare in questi anni a gonfie vele. Gli importa di più l’inflazione che ha messo alle corde i loro bilanci. Trump si è presentato di fronte a un banchetto su cui erano esposti prodotti di consumo quotidiano. Roba che i privilegiati e i salutisti non si sognerebbero mai di comprare e mettere in tavola. La Harris ha detto che calmiererà i prezzi. Non li infastidisce la rozzezza, il turpiloquio, il modo sboccato e violento in cui Trump parla degli avversari. Lo percepiscono uno che parla come loro. Peggio: è Trump a passare per quello che vuole il cambiamento, la rivoluzione, come il candidato contro l’establishment, i poteri costituiti, lo status quo esistente. Gli slogan che tappezzavano la Convention democratica di Chicago e i cori erano: “Non torniamo indietro”, “Una nuova via avanti”. Lo slogan sul quale sono stati sinora spesi più soldi in questa campagna presidenziale è: “Facciamo in modo che cominci il futuro”. E’ sempre delicato l’equilibrio tra paura di eccesso di novità, di un futuro incerto e peggiore, e la voglia di nuovo. Ma per Kamala è più difficile promettere che “volterà la pagina”. E’ stata vice del presidente che è stato alla Casa Bianca negli ultimi quattro anni.

Eppure, non è ancora detto. It ain’t over till the fat lady sings è un modo di dire proverbiale americano. Intraducibile. Alla lettera significa “non è finita fino a che non canta la signora grassa”. Il riferimento è all’opera lirica, che lì non è mai stata popolare quanto lo è stata per i contadini della Valle Padana. Cioè non è finita fino a che non è finita, fino a quando avranno votato. Basta un nonnulla per far pendere i piatti della bilancia da una parte o dall’altra. Specie quando il paese è diviso in due metà che grossomodo si equivalgono. Poi può anche essere cappotto, valanga, i piatti possono anche precipitare da una parte o dall’altra. Ma basta il peso di un capello a rompere l’equilibrio, dare inizio al movimento. E’ difficile che ci siano vincenti sicuri e perdenti sicuri, a prescindere da un’infinita complessità di fattori che, molto diversi in peso specifico tra loro, possono fare massa critica. 

Da mesi, i giornali americani sono zeppi di consigli di opinionisti famosi, di addetti ai lavori della politica, di strateghi elettorali e militanti ben intenzionati, all’una e all’altra delle parti. Dovrebbero fare questo, non quell’altro, gli dicono. Trascinato dall’entusiasmo, qualcuno li scimmiotta anche dalle nostre parti. Me ne guarderei bene. Nei miei anni da corrispondente in America ho seguito diverse elezioni presidenziali. Per lo più non ho imbroccato come sarebbe andata a finire.

La mia prima volta fu lo scontro tra Gerald Ford, che era subentrato da vice a Nixon, e Jimmy Carter. Parteggiavo per Carter, ma ero sicuro che non ce l’avrebbe fatta. Vinse il democratico deriso come coltivatore di noccioline. Quando trionfò Reagan ero in Cina. Nel 1988 quasi tutti erano convinti che contro Bush padre, che era pallido vice di Reagan, potesse vincere il governatore democratico del Massachusetts, figlio di immigrati greci, Mike Dukakis. Aveva un candidato a vice coi fiocchi, Lloyd Bentsen, che stracciò il peso piuma della controparte, Dan Quayle, che citava Kennedy: “Io ho conosciuto Jack Kennedy, ero suo amico, lei non è Jack Kennedy”. Dukakis fu impallinato da due nonnulla: una foto inopportuna e una porta girevole. La foto lo ritraeva su un carro armato, con in testa un casco da carrista. Fu seppellito dal ridicolo. La porta girevole era quella rappresentata in un martellante video elettorale, in cui lo si tacciava di essere favorevole a che i delinquenti entrassero in prigione e ne uscissero per commettere nuovi delitti. La prima cosa che Kamala Harris ha ricordato quando Biden le ha passato il testimone è che da procuratrice metteva in galera i malviventi, e ce li teneva. 

Nel 1992 viaggiai da un capo all’altro dell’America sull’aereo della campagna del candidato Bill Clinton. Mi piacque che leggesse un giallo di Sara Paretsky. Ma mi sembrava leggero rispetto a Bush padre, vincitore della Prima guerra del Golfo. Mi sbagliai di grosso. Avrebbe fatto due mandati. La imbroccai invece sulla debolezza di Hillary. Ero già in pensione. Raccontai a Calabresi, che allora dirigeva Repubblica, perché mio figlio, registrato democratico, non voleva votare Clinton, anche se non avrebbe mai votato per Trump. Mi chiese di fargli un editoriale in cui spiegavo perché forse non sarebbe andata come tutti pensavano che sarebbe andata.   

Forse ciascuno dei due non deve far altro che aspettare che l’altro faccia un autogol fatale. Bastano 47 secondi.