Verso le presidenziali

Dopo una convention straordinaria, per Kamala Harris è il momento di parlare di politica

Marco Bardazzi

Per la candidata democratica alle prossime elezioni ora arriva la parte difficile: dovrà rispondere alle domande scomode che finora ha scansato, arriverà il confronto con Donald Trump e i sondaggi nei sette stati chiave che decideranno tutto

Kamala Harris protettrice della classe media indebolita da anni di recessione e inflazione. Kamala comandante in capo capace di tenere testa a Vladimir Putin e agli ayatollah di Teheran. Kamala leader empatica che vuole governare con il sorriso, il pragmatismo e la propria biografia, ma senza indulgere troppo nella retorica obamiana della prima volta alla Casa Bianca (donna, nera, con sangue indiano e caraibico). Il “prodotto politico” Kamala Harris è pronto, messo a punto a tempo di record in un mese di comunicazione e marketing che ha avuto l’apice in una convention straordinaria, nella quale tutto il partito si è unito per affidarle il sogno americano e la speranza di battere Donald Trump. Non solo per la presidenza, ma anche nel voto per il Congresso. Adesso però viene la parte difficile. Perché nei 73 giorni che mancano all’Election Day arriveranno le domande scomode nelle interviste che finora ha scansato. Arriverà il confronto televisivo con Trump il 10 settembre, che può essere una grande opportunità ma anche un rischio enorme, come ha imparato a sue spese Joe Biden. E arriveranno le risposte dei sondaggi nei sette stati che decideranno tutto. Ci sono da convincere i minatori della Pennsylvania rurale, ai quali non ha ancora detto quale sia la propria strategia energetica.
 

C’è da vedere come reagiranno i lavoratori del Wisconsin e del Michigan, stanchi della globalizzazione e tentati dal protezionismo di Trump. Va capito cosa penseranno gli afroamericani della North Carolina e della Georgia, che avevano cominciato a spostarsi verso i repubblicani. O come l’accoglieranno in Arizona, dove c’è molta voglia di dar ragione a Trump su una politica migratoria fatta di muri e deportazioni. E infine cosa diranno in Nevada, lo stato dove il prezzo delle case è salito più che in tutto il resto degli Stati Uniti e dove l’avversario mantiene un forte vantaggio.
 

Dopo il trionfo per la Harris a Chicago, la strada per la Casa Bianca adesso passa da questi luoghi. E al momento dovunque si tratta di un testa a testa pieno di incertezza, con poche migliaia di voti che possono rappresentare la differenza tra vincere o perdere uno stato.
 

Il grande successo estivo dei democratici è stato quello di recuperare lo svantaggio che aveva accumulato Biden, rimontare Trump e passare a condurre, sia pure di poco. Ora però la luna di miele è finita e a Kamala Harris verranno chiesti i dettagli su come vuol guidare l’America. Finora ne ha dati pochi, anche nel discorso finale alla convention, e in passato non si è dimostrata particolarmente efficace nei confronti della stampa o con gli elettori, terreno diverso dai comizi con un testo scritto.
 

L’autunno sarà il test della verità per Kamala Harris, che in estate non ha sbagliato una sola mossa. Il personaggio credibile e affidabile che ha costruito fino a ora deve passare al vaglio del mercato: gli elettori acquisteranno il “prodotto” che ha da offrire?
 

I sondaggi nazionali sono serviti fin qui a capire il trend e a confermare che la Harris ce la può fare. Nella nuova fase, però, i suoi strateghi guarderanno sempre meno al dato distribuito su tutti gli Stati Uniti. La corsa alla Casa Bianca è fatta in realtà di cinquanta elezioni diverse, tanti quanti sono gli stati americani (più il District of Columbia, D. C., dove sorge Washington). Ogni stato mette in palio un certo pacchetto di voti elettorali, legato al numero di deputati e senatori al Congresso. Il totale dei voti in palio è 538, vince chi arriva a 270.
 

Biden ha mollato quando anche i consiglieri più stretti gli hanno fatto capire, sondaggi alla mano, che Trump a luglio era già arrivato a quota 269 e che non c’erano strade ragionevoli per vincere. Adesso tutto è cambiato. Dopo la convention di Chicago, i democratici possono contare con un certo grado di fiducia su 225-226 voti elettorali, i repubblicani su 219-220 (il voto singolo del distretto di Omaha, in Nebraska, fa la differenza ed è incertissimo e combattuto). Ci sono da assegnare 93 voti elettorali in sette stati e tutta la battaglia di comizi e investimenti pubblicitari si giocherà qui. Gli altri 43 stati nei prossimi due mesi vedranno i candidati solo in televisione: Harris e Trump, insieme ai vice Tim Walz e J. D. Vance, d’ora in poi gireranno in continuazione solo nei “magnifici sette”.
 

Le simulazioni degli strateghi dicono che i democratici hanno molte strade per vincere, ma che è decisivo conquistare la Pennsylvania. Trump e i suoi devono invece puntare sulla coppia North Carolina-Georgia e costruire da qui il percorso verso quota 270. Le differenze nei sondaggi sono quasi ovunque all’interno del margine d’errore. Il ritiro del candidato di disturbo Robert F. Kennedy, che ha appoggiato Trump, non dovrebbe cambiare molto, così come le proteste degli arabo-americani del Michigan. Ma tutto si gioca su poche migliaia di voti, con il rischio anche di una lunga notte elettorale fatta di contestazioni e accuse di brogli.
 

Trump è ancora alla ricerca di una strategia convincente contro  Harris. Non riesce a definirla e attaccarla in modo efficace come aveva fatto con Hillary Clinton e con Biden. Le prossime settimane e soprattutto il dibattito del 10 settembre diranno se l’ex presidente sarà stato capace di concentrarsi sugli attacchi sui temi concreti, come suggeriscono i suoi consiglieri, o se vincerà la tentazione di proseguire gli affondi personali contro la vicepresidente. Kamala Harris invece dovrà riempire di contenuti le sue promesse, finora efficaci, e stare attenta a non commettere qualche gaffe seria che incrini la favola politica dell’estate.

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