colpo grosso a tripoli
In Libia le milizie si contendono la Banca centrale. I soldi dell'Italia che fine faranno?
La partita di Dabaiba e Haftar per gestire il denaro del paese rischia di innescare una nuova guerra civile. La preoccupazione di Roma per gli investimenti petroliferi di Eni e per il denaro versato per fermare i migranti
In Libia c’è stato solo un uomo capace di resistere a oltre dieci anni di guerra, mantenendo intatti la sua autorità e i suoi poteri. Lavora in un palazzo del centro di Tripoli, costruito dagli italiani durante la dominazione fascista, protetto da poche guardie armate. Il settantenne Siddiq al Kabir è molto più di un governatore della Banca centrale libica: è il simbolo di quella competenza e autorevolezza che le cancellerie occidentali, non senza un pizzico di utopica ostinazione, vorrebbero un domani vedere prevalere in una Libia unita e pacificata. Eppure, da alcuni giorni anche Kabir, che supervisiona l’istituto più ricco di riserve di valuta estera dell’intera Africa e che gestisce gli introiti del petrolio più pregiato del continente, è al centro di una contesa che potrebbe trascinare l’intero paese verso una nuova guerra civile. Ieri sembrava che da un momento all’altro alcune milizie potessero occupare con la forza la sede della Banca centrale di Tripoli per rimuovere Kabir, che non intende lasciare il suo posto. Alla fine, un comitato incaricato di ricomporre la situazione ha riportato la calma e i gruppi armati sono rientrati nelle rispettive basi. L’assalto alla cassa del paese però potrebbe essere solo stato rimandato e il clima resta teso. Chi vuole la testa di Kabir sono i gruppi fedeli al premier libico dell’ovest, Abdulhamid Dabaiba, che è in rotta con il governatore.
Dallo scorso anno, Tripoli si è vista tagliare buona parte del denaro che la Banca centrale smista fra est e ovest. Kabir si è mostrato invece molto più disponibile a finanziare il governo dell’est, cioè il clan del generale Khalifa Haftar, e ha accusato Dabaiba e il suo entourage di corruzione. Da allora, per lui la vita si è fatta più complicata. Il Consiglio presidenziale lo ha sfiduciato e Mohammed al Shukri è stato nominato suo successore. L’avvicendamento è contestato dal Parlamento di Bengasi, presieduto da Aguila Saleh. Se finora non si è arrivati allo scontro aperto tra le milizie è perché in Libia vige un equilibrio militare fra forze esterne al paese, cioè fra la Turchia che sostiene militarmente Dabaiba, e la Russia che è alleata di Haftar. Forse su invito di qualcuno di questi attori, ieri Shukri ha detto di volere rinunciare all’incarico di governatore della Banca centrale se prima il Consiglio e il Parlamento non avessero trovato un’intesa. Intanto però si è insediato un nuovo Consiglio direttivo che, secondo Wolfram Lacher, dell’Istituto tedesco per la sicurezza internazionale, di fatto indebolisce ulteriormente la figura di Kabir. “Il nuovo board permette ad attori chiave di infiltrare la Banca centrale, indebolendola. Significa che anche questa istituzione diventa moneta di scambio tra personaggi corrotti”, spiega al Foglio. In Libia sono due gli organi vitali che tengono ancora in vita un Frankenstein fatto di alleanze variabili fra milizie: uno è la National Oil Corporation (Noc), che supervisiona l’estrazione del petrolio. Nel 2022, la guida della Noc fu affidata a Farhat Bengdara solo grazie a un accordo sottobanco concluso fra le famiglie Dabaiba e Haftar. Se ora si replicasse la stessa, opaca metodologia per decidere la guida del secondo organo vitale del paese – appunto, la Banca centrale – significherebbe lasciare la Libia sospesa in uno stato di incertezza ancora più grave di quello che regnava fino a ieri.
Con una situazione sul campo così fluida, ciò che conta è che in Libia c’è un’enorme quantità di denaro generato dai proventi del petrolio che non è chiaro come sarà gestita, né in quali mani finirà. Per Lacher, la prospettiva più concreta è che sia Haftar a trarre vantaggio dalla contesa. “Il generale potrebbe sfruttare la debolezza della Banca centrale e rafforzare così il ruolo di Bengasi, magari stampando moneta contraffatta”, spiega l’esperto.
Fra gli spettatori interessati ci sono gli Stati Uniti, che sponsorizzano Kabir perché lo vedono come l’unico in grado di potere garantire un minimo di stabilità al paese. E soprattutto c’è l’Italia, che è molto esposta sia politicamente sia nel settore petrolifero. Mohammed Elgrj, giornalista ed esperto del settore energetico libico, ritiene che le conseguenze dello scontro per la guida della Banca centrale potrebbero essere consistenti per il nostro paese: “La riorganizzazione del Consiglio direttivo avrà senza dubbio un impatto sul settore petrolifero”, racconta al Foglio. “Di certo impatterà sull’esborso di denaro alla Noc. E poi sull’investimento da decine di miliardi di dinari libici (circa 2 miliardi di dollari) previsto per attivare le estrazioni dal giacimento petrolifero dell’NC-7, dove Eni è leader partner”. Nel novembre dello scorso anno, la compagnia petrolifera italiana si è messa alla guida di un consorzio internazionale, che include anche la francese Total, per lo sfruttamento di questo settore. La decisione di Dabaiba di affidare l’appalto a Eni, sostenuta dalla Noc che è socio degli italiani nella Mellitah Oil and Gas, fu molto criticata perché considerata controversa per le modalità con cui era stata presa.
Il giacimento si trova nel bacino di Gadamesh, che in queste settimane è diventata l’altra zona di tensione in Libia. Centinaia di uomini di Haftar hanno marciato verso questa cittadina che si trova nel deserto, al confine con l’Algeria. Per ora, sembra che il 173esimo battaglione di Haftar non abbia ricevuto l’ordine di attaccare i pozzi. Ma ieri Aguila Saleh ha minacciato che se Kabir sarà sostituito, l’est potrebbe chiudere i pozzi di petrolio. “Siamo pronti a fermare il flusso di denaro dalla Noc alla Banca centrale”, ha detto l’uomo di Haftar.
Per l’Italia non potrebbe esserci una situazione più complessa, non solo da un punto di vista economico. “L’impatto per noi potrebbe esserci anche per quanto riguarda i flussi migratori”, spiega al Foglio Arturo Varvelli dell’Ecfr. “La gestione delle partenze ‘alla libica’, finora, ha ridotto i flussi. Abbiamo offerto ‘moneta buona’, gli investimenti, per spazzare via quella ‘cattiva’, fatta di traffici illeciti. Ora però potrebbero esserci delle ripercussioni importanti”.