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L'editoriale dell'elefantino

La nuova Kamala contro il weird Trump: la macchina da guerra dem, alle prese con le guerre vere

Giuliano Ferrara

L’adunata democratica di Chicago, celebrata con toni di ispirata partigianeria dai progressisti di tutto il mondo, ricorda un po' la a“gioiosa macchina da guerra” di Achille Occhetto che portò a Palazzo Chigi Silvio Berlusconi nel 1994. Con le dovute differenze

Kamala Harris ha fatto il suo, ha offerto vibrazioni di illusione e speranza. L’adunata democratica di Chicago, celebrata con toni di ispirata partigianeria dai progressisti di tutto il mondo, ricorda un po’ la “gioiosa macchina da guerra” di Achille Occhetto che portò a Palazzo Chigi Silvio Berlusconi nel 1994. Ma era tanto tempo fa, e tutto era diverso. Berlusconi era effettivamente una novità, un’ipotesi di cambiamento, anche formale, anche stilistica, e il suo avversario più che la gioia ricordava pericolosamente la cupa atmosfera di un’Italia manettara, statalista, dirigista con venature illiberali. Se nel nostro 1994 c’era qualcosa di strambo, di weird, era la carovana senza leadership dei liberal all’italiana, in completo marrone e in divisa da velista contro un doppiopetto e la cravatta a pallini di una popstar del reaganismo brianzolo che prometteva miracoli, altro che sogni. Qui il flusso di coscienza di un Trump imbolsito e invecchiato di colpo, impiccato a un aggettivo divino (weird) coniato per lui da Tim Walz e impegnato finora nella logica logorroica dell’insulto personale e dell’egotismo appunto strambo, e debordante, consente di sventolare la vibrante bandiera della libertà e del sogno americano a una candidata uscita dall’opaco di una vicepresidenza grigia e da una lunga fase autolesionista conclusa con la estromissione del vecchio Joe Biden. Rovesciamento delle parti. Trump come incubo passatista, Kamala come orgogliosa testimone di un futuro possibile.
 

Quanto conti la guerra delle immagini e la caratura delle personalità nella costruzione della politica americana, si sa. Siamo ancora immersi, grazie anche al tremendo giorno di Dallas, nel mito di Kennedy, e solo storici e politologi sanno che in verità fu il realismo cinico texano e riformatore di Lyndon B. Johnson, un mandato e mezzo e una rinuncia come per Biden, a trasformare radicalmente l’impianto sociale e giuridico segregazionista di un paese vecchio e ingiusto. Il giornale conservatore più autorevole, il Wall Street Journal, rimbecca la Harris per un suo generico sinistrismo e per la spiccata tendenza a nasconderlo stando, come si dice, sulle generali, ma subito si rende conto, buoni argomenti a parte, che il vero ostacolo per conservatori e repubblicani, o quel che ne resta dopo dieci anni di trumpismo subìto e coccolato, è appunto la personalità del candidato, uno che considera sé stesso la summa di tutte le questioni e l’immagine sola vincente. Bisogna però dire che le immagini sono anche traditrici. Siamo a poche settimane dalla foto storica, modello Iwo Jima, di The Donald sfiorato da un proiettile durante un comizio che si rialza sanguinante e, rimesse le scarpine (“Let me take my shoes!”), agita il pugno e invita il suo popolo a combattere. Sembrava il capitolo chiuso di un immaginario del coraggio e della perseveranza, è già tutto più o meno dimenticato e riassorbito dalla ricomparsa dei vizi e delle tiritere telefoniche alla Fox del maschiaccio tossico contro la donna che ricostruisce una coalizione ampia e plurale.
 

Tuttavia, posto anche che i tassi di interesse sul denaro riprendano a scendere, buona notizia per i democratici nel contrasto agli incubi della classe media  instillati dalla propaganda trumpiana, qualche rischio le gioiose macchine da guerra lo fanno sempre correre, specie quando di guerre vere ce n’è, con sorprese sofferenti di ogni tipo, e chi si candida a comandante in capo deve dimostrare di saper padroneggiare la grande politica dei fatti oltre che agitare una eccelsa retorica del change. La novità politica della convention di Chicago è che quando il Partito democratico non cede alle bellurie dell’umanitarismo, alimentando il vasto partito artificiale dei campus, alla fine a protestare con la kefiah non sono le nuove “armate della notte”, sono quattro gatti

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.