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L'editoriale dell'Elefantino

Netanyahu e il dramma del terrorismo ebraico

Giuliano Ferrara

La democrazia israeliana deve venire a capo in emergenza, e qui c’è il ruolo centrale del premier, che dirige il paese, di una delle peggiori minacce esistenziali della sua storia

Tra i risultati tragicamente efficaci dell’operazione pogrom del 7 ottobre, a parte la strage di civili a Gaza di cui Hamas si è fatta scudo con una strategia consapevole e dichiarata di isolamento del nemico israeliano di fronte al mondo, c’è la crescita simmetrica al nichilismo antisemita di un terrorismo ebraico, nutrito di fanatismo nazionalista e di spirito biblico da Grande Israele. Se il presidente Herzog definisce un pogrom la caccia violenta a famiglie palestinesi insediate in Cisgiordania sotto occupazione israeliana, e se Ronen Bar, il capo dello Shin Bet, scrive con pena una lettera di denuncia delle responsabilità del ministro per la Sicurezza Ben Gvir nell’attizzare divisione interna e violenza di natura terroristica con le sue azioni esemplari e con le sue direttive di copertura delle avanguardie violente dei coloni, questo significa che la democrazia israeliana deve venire a capo in emergenza, e qui c’è il ruolo centrale di Netanyahu, che dirige il paese e conduce la guerra a Hamas, di una delle peggiori minacce esistenziali della sua storia.

   

Hamas è riuscita a creare un soggetto simmetrico di odio e di spirito di annientamento che si fa largo, pur essendo una minoranza, come una minoranza attiva e protetta da un settore del governo di Gerusalemme impegnata nella caccia al palestinese inteso come nemico etnico. E questo è intollerabile per chi vive in Israele, per chi combatte per Israele, per chi ama Israele. 

       

Netanyahu non ha scelto di allearsi strategicamente con la pattuglia dell’ultra destra suprematista, ha scelto la sfida del governo, che è l’onore della politica, quando l’elettorato, convocato alle urne per quattro volte in due anni, ha creato le condizioni necessarie per una maggioranza anomala, Likud più le ultra destre, che il premier israeliano ha cercato di controllare politicamente e strategicamente, essendo questa l’unica soluzione concretamente realistica per una coalizione alla guida di un esecutivo con i numeri per farlo alla Knesset. La politica israeliana, si sa, e si sa anche perché, è storicamente una fossa dei serpenti, una democrazia convulsiva che deve convivere con l’ideale di uno stato rifugio degli ebrei, con la realtà di uno stato guarnigione che difende il proprio diritto di esistere contro un nemico mortale, con una democrazia istituzionale a prova di bomba ma convulsiva, lacerata, drammaticamente divisa e da sempre alle prese con guerre di annientamento e terrorismo. La bussola di Netanyahu è sempre stata il contrasto al nemico dei nemici, l’Iran prenucleare, e il tentativo di estendere l’alleanza statale con i paesi arabi sunniti sulla scia degli accordi Begin-Kissinger-Sadat che furono l’unico modo effettivo di garantire reciproco riconoscimento e un equilibrio di pace tra israeliani e arabi a fronte del fallimento della via degli accordi di Oslo e simili. 

       

Ma ora, intrappolato nel dovere patriottico di difendere e guidare i suoi nella guerra contro Hamas e il mandatario iraniano, in un paese privo di efficaci e urgenti maggioranze di unità nazionale che escludano le piccole formazioni di estremisti nazionalisti, il premier israeliano è di fronte a una scelta che non è una manovra politica e parlamentare, la sua specialità e il segreto della sua longevità alla testa dello stato, bensì una tragica necessità strategica e morale. Un conto è contrastare l’ideologia umanitaria intesa come strumento per fermare l’autodifesa di Israele, un conto è non cedere alla febbre del negoziato alle condizioni del nemico, un ben altro conto è proteggere ciò che dall’interno delle istituzioni di fiducia israeliane, per esempio lo Shin Bet o il ministero della Difesa, è considerato terrorismo ebraico. Bisognerebbe che la classe dirigente israeliana, prima di tutto le forze di centrosinistra e di centro sopravvissute alla scomparsa del laburismo, e tutti coloro che si sentono vicini a quello stato e a quel popolo, si convincessero a offrire una via d’uscita politica in costanza di una guerra tremenda e non la solita giaculatoria contro i cattivi. E’ così che si combatte la degenerazione dell’istinto di autodifesa ebraico in violenza antipalestinese.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.