Il modello tedesco della cittadinanza
Minoranze da tutelare, antisemitismo da combattere. Per una riforma della legge che coniughi accoglienza e sicurezza. Senza un confronto sulla scuola e sui libri di testo, come ha fatto e fa la Germania, lo ius scholae da solo non basta. Idee
In questi giorni torna di attualità la questione dell’attribuzione della cittadinanza italiana agli stranieri. Il dibattito si concentra soprattutto sulla contrapposizione tra ius soli e ius scholae, tra ius sanguinis e ius culturae. Inutile dire che gran parte degli italiani non ha capito di cosa si stia parlando, eppure su questo gli alleati di governo pare siano sul punto di rottura.
La legge attuale fa riferimento al cosiddetto ius sanguinis del 1992 che stabilisce che è cittadino per nascita il figlio di padre o di madre cittadini oppure chi è nato nel territorio della Repubblica se entrambi i genitori sono ignoti o apolidi, ovvero se il figlio non segue la cittadinanza dei genitori secondo la legge dello stato al quale questi appartengono. E’ considerato cittadino per nascita anche il figlio di ignoti trovato nel territorio della Repubblica, se non venga provato il possesso di altra cittadinanza. Secondo questa legge: “Lo straniero nato in Italia, che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età, diviene cittadino se dichiara di voler acquistare la cittadinanza italiana entro un anno dalla suddetta data”. Com’è noto, la legge va poi nei dettagli dei singoli casi.
Qualora non esistano le condizioni per lo ius sanguinis, la cittadinanza può essere conferita per naturalizzazione allo straniero che risieda legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica o, senza considerazione di tempo, a quegli stranieri che abbiano reso eminenti servizi all’Italia. Dal 2011, a tutti gli stranieri non comunitari che fanno ingresso in Italia dopo i 16 anni di età, viene richiesto di sottoscrivere (ma non è obbligatorio farlo) uno specifico “accordo di integrazione”. Questo certifica l’impegno dello stato ad assicurare il godimento dei diritti fondamentali e a fornire gli strumenti che consentano di acquisire la lingua, la cultura ed i principi della Costituzione italiana; oltre che l’impegno, da parte del cittadino straniero, al rispetto delle regole della società civile, al fine di perseguire un buon percorso di integrazione. Tuttavia l’accordo non è vincolante per l’ottenimento della cittadinanza, infatti gli stranieri non comunitari che non lo abbiano sottoscritto possono far valere, al suo posto, il possesso di un titolo di studio rilasciato da un istituto di istruzione pubblico o paritario riconosciuto dal ministero dell’Istruzione o dell’Università.
Diversamente, lo ius soli – qualora applicato – stabilirebbe il diritto di cittadinanza a tutti coloro i quali nascono in Italia, indipendentemente dalla cittadinanza dei genitori. Si tratta di un’ipotesi che non ha mai riscontrato grandi favori nell’opinione pubblica italiana anche se, nel 2015, nel dibattito sulla legge per la cittadinanza, ha fatto capolino il cosiddetto “ius soli temperato” che prevedeva la possibilità, per un bambino nato in Italia, di diventare automaticamente italiano se almeno uno dei due genitori si fosse trovato legalmente in Italia da almeno 5 anni. Il genitore non comunitario avrebbe dovuto rispondere anche ad altri requisiti: avere un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale, disporre di un alloggio, superare un test di conoscenza della lingua italiana. Mentre la proposta di ius culturae, sempre del 2015, consisteva nell’ipotesi di concessione della cittadinanza italiana ai minori nati in Italia o che vi fossero entrati prima dei dodici anni, al termine di un percorso formativo di almeno cinque anni, frequentati regolarmente sul territorio nazionale e continuativamente residenti. Quali le differenze con lo ius scholae di cui si sta trattando in questi giorni? Lo ius scholae, che fa riferimento a una proposta del 2022, anche se il dibattito si è acceso soltanto ora dopo la disponibilità del vicepremier Antonio Tajani a discutere della proposta, a differenza dello ius culturae non richiede che il percorso scolastico sia terminato con successo.
Legare la naturalizzazione di uno straniero alla mera frequentazione quinquennale di un istituto scolastico presenta comunque delle ombre. Ad esempio, quando si discorre di ius scholae non si considera che – proprio nelle nostre scuole – non è raro trovare nei libri di testo passaggi errati su ebrei e/o medio oriente, atti a creare o, seppur involontariamente, rafforzare il pregiudizio. Una questione non da poco, anche se qualcuno penserà che un dibattito su integrazione e nuova naturalizzazione c’entri poco o nulla con l’antisemitismo. Tuttavia, può davvero esserci reale integrazione senza attenzione al pregiudizio nei confronti delle minoranze?
Proprio per questo motivo, tra Germania e Israele, ad esempio, è in atto il prezioso lavoro della Deutsche-Israelische Schulbuchkommission, ovvero della Commissione israelo-tedesca per la supervisione dei libri di testo. In Italia, purtroppo, nonostante il lodevole impegno dell’allora coordinatrice Milena Santerini, non sembrano essere state proficuamente attuate, con specifica attenzione ai libri di testo, neppure le linee guida del 2021 sul contrasto all’antisemitismo nella scuola. Senza addentrarci nei temi geopolitici (che richiederebbero, da soli, un altro articolo), basti ricordare che il fatto stesso di presentare Gesù come nato in Palestina, come avviene nella gran parte dei testi, implica il suggerire agli allievi la narrazione di un Gesù palestinese (talvolta riprodotto nella culla avvolto da una kefiah), quando nella realtà storica dei fatti la porzione di terra in cui è nato e su cui ha vissuto ed è deceduto Gesù non era in alcun modo definibile come Palestina: neppure il toponimo era a quei tempi noto. Ciò avverrà soltanto all’indomani della rivolta ebraica contro gli occupanti Romani (135 d.C.) e nulla ha a che vedere con la presenza islamica, che penetrerà nel territorio alla fine del VII secolo d.C.
Pertanto, senza un profondo rinnovamento della scuola, della formazione dei docenti e della revisione critica dei libri di testo, siamo certi che lo ius scholae sia la strada migliore da seguire? E’ sufficiente aver frequentato un percorso di formazione quinquennale per accertare l’integrazione nel sistema di valori del paese accogliente?
Lo facciamo notare perché, di fatto, in questo percorso nulla viene detto su un punto chiave del sistema de iure condendo, che riguarda proprio la necessità d’integrare i nuovi cittadini e che non può certo risolversi nel volontario accordo d’integrazione che, tra l’altro, può anche non essere sottoscritto dagli interessati. Pertanto, perché non cogliere l’occasione per rinverdire il mai sopito fascino dei nostri studiosi per il diritto tedesco, fascino che ha portato loro, addirittura, a inserire nel nostro sistema il negozio giuridico, pur assente dalla nostra codificazione? La sezione n° 10 della legge tedesca richiede che gli aspiranti cittadini confermino il loro impegno nei confronti del sistema costituzionale democratico e libero sancito dalla Legge fondamentale della Repubblica Federale Tedesca e dichiarino di non perseguire né sostenere e di non aver mai svolto o sostenuto alcuna attività: “a) diretta a sovvertire l’ordinamento costituzionale libero democratico, l’esistenza o la sicurezza della Federazione o di un Land ovvero b) diretta ad ostacolare illecitamente gli organi costituzionali della Federazione o di un Land o i membri di detti organi nell’esercizio delle loro funzioni o c) volta a mettere in pericolo gli interessi stranieri della Repubblica Federale di Germania attraverso l’uso della violenza o azioni preparatorie all’uso della violenza, o che affermino in modo credibile di aver preso le distanze dal precedente perseguimento o sostegno di tali attività”. Ancor più significativamente: “Dovrebbero dichiarare il proprio impegno nei confronti della particolare responsabilità storica della Germania nei confronti del regime nazionalsocialista e delle sue conseguenze, in particolare per la protezione della vita ebraica; alla convivenza pacifica tra i popoli; e al divieto di condurre una guerra di aggressione”.
La legge tedesca stabilisce anche che “gli atti motivati da antisemitismo, razzismo o altre forme di disprezzo della dignità umana sono incompatibili con la garanzia della dignità umana sancita nella Legge fondamentale della Repubblica federale di Germania e violano il sistema costituzionale libero e democratico”. Prevede altresì che non sia consentita la naturalizzazione se sussistano concreti motivi per ritenere che lo straniero svolga o sostenga o abbia svolto o sostenuto attività dirette a sovvertire l’ordinamento costituzionale o qualsiasi attività che metta in pericolo gli interessi stranieri della Repubblica Federale Tedesca attraverso l’uso della violenza o azioni preparatorie all’uso della violenza, ma anche se lo straniero è sposato con più coniugi contemporaneamente oppure se il suo comportamento dimostra di non rispettare la parità di diritti tra uomini e donne, sancita dalla Costituzione tedesca.
Entrata in vigore il 19 gennaio 2024, la “Legge sulla modernizzazione del diritto di cittadinanza” prevede che l’aspirante – oltre a diversi altri requisiti – debba rispondere a un test con 33 domande. Come rivelato allo Spiegel dal ministro degli Interni Nancy Faeser (Spd), alcune specifiche domande riguardano argomenti inerenti la storia ebraica, lo Stato di Israele e il rapporto della Germania con il paese perché, ha affermato il ministro, “se non condividi i nostri valori, non puoi ottenere il passaporto tedesco”. Come viene ben spiegato in I Am Expat in Germany, alcune – tra le nuove domande – potranno essere le seguenti: Quanti anni fa vivevano i primi ebrei in quella che oggi è la Germania? Come si chiama un centro di culto ebraico? Cosa commemorano le pietre d’inciampo (Stolpersteine)? Qual è un esempio di comportamento antisemita? Qual è una possibile punizione per la negazione dell’Olocausto in Germania? In quale anno fu fondato lo Stato di Israele?
Su quale base giuridica è stato fondato lo Stato di Israele? Da quale paese proviene la maggior parte degli ebrei che vivono attualmente in Germania? In quali città tedesche vivono le comunità ebraiche più numerose? Chi può iscriversi a un club sportivo ebraico del Maccabi? Quali sono le ragioni per cui la Germania ha una responsabilità speciale nei confronti di Israele? Quali dichiarazioni nei confronti d’Israele sono vietate in Germania?
Infine, coloro i quali richiedono la cittadinanza e risiedono nello stato tedesco orientale della Sassonia Anhalt, sono ora tenuti a dichiarare il loro sostegno al diritto di esistere di Israele. Si tratta del primo Land che ha assunto questa decisione, ma altri stanno già pensando di seguirne le orme. E’ certamente la dimostrazione di un’attenzione particolare nei confronti della popolazione ebraica, ma rivela anche un atteggiamento rispettoso nei confronti dei nuovi arrivati i quali, soltanto attraverso una positiva integrazione nella società tedesca, potranno sentirsi a casa nella nuova patria. Da notare inoltre il fatto che questo clima positivo di rispetto ha indotto diversi ebrei israeliani – con antenati tedeschi – a rientrare in Germania. Sono stati 5.670 nel 2022, 9.129 nel 2023, mentre nei primi quattro mesi del 2024 sono state presentate 6.869 domande. Se il trend continuasse per tutto il 2024, ciò significherebbe un raddoppio rispetto al 2023 e un quadruplicamento rispetto al 2022. Analogamente stanno rientrando in Germania, sempre con “naturalizzazione riparatrice”, anche ebrei residenti negli Usa: 11.399 nel 2022, 13.989 nel 2023 e, sempre nei primi quattro mesi del 2024, altri 9.371. Non sembri una cosa da poco: la maggior parte degli ebrei israeliani e americani che sta acquisendo cittadinanza tedesca è costituita da figli e nipoti di coloro i quali sono stati perseguitati e uccisi durante il nazismo. E’ una prova di fiducia enorme che la Germania di oggi non vuole in alcun modo tradire.
Qualcuno potrà obiettare che la Germania agisce così per senso di colpa. Non dovrebbe però essere un sentimento condiviso? L’Italia, grazie (si fa per dire) all’operato del Gran Consiglio del Fascismo del 25 luglio 1943 e agli eventi successivi, eroica guerra partigiana compresa, non sembra sentirsi responsabile delle sofferenze degli ebrei, quasi che queste fossero state cagionate dal fato o dai soli tedeschi. Quasi che le leggi razziali del 1938 non fossero mai esistite, o che Benito Mussolini non avesse mai stretto accordi con Amin al-Husseini il 27 ottobre 1941, addirittura un mese prima di Hitler. O ancora che il 16 settembre 1943 o il 18 ottobre dello stesso anno non fossero partiti i primi convogli, da Merano e Roma, carichi di ebrei italiani, destinati ai campi della morte. Dov’erano gli sguardi degli italiani, brava gente, quando ancora altri treni partivano da Milano, Firenze, Bologna, Verona tra gennaio e la fine di luglio del 1944? E poi i convogli da Bolzano e da Trieste. Quasi tutti destinati a trasportare connazionali ebrei ad Auschwitz-Birkenau, ma anche a Bergen Belsen, Ravensbrück, Buchenwald, Flossenbürg.
E’ vero che la Germania, alla luce dei crimini tedeschi contro gli ebrei durante la Shoah, si riconosce moralmente impegnata a favore della riconciliazione tra il popolo ebraico e il paese, ma noi italiani – alleati e complici di quello sterminio – come possiamo aver dimenticato? Potrebbe forse essere una buona occasione far entrare, nel dibattito sulla nuova legge per la cittadinanza, la possibilità di inserire garanzie per la minoranza ebraica sull’esempio tedesco? D’altra parte, la prospettiva di accogliere in Italia più o meno nutrite schiere di antisemiti, non dovrebbe essere lusinghiera nemmeno per chi ebreo non è, non fosse altro perché – come ci suggerisce il sociologo Renzo Guolo – nella realtà italiana gli islamisti (ovvero coloro che dell’islam fanno un uso politico) puntano non tanto all’integrazione, quanto a modellare “una comunità che mantenga un certo grado di separatezza dall’ambiente circostante, ritenuto impuro”.
Seppur siano ancora pochi gli studi sull’antisemitismo d’importazione, appare ormai acclarato che – per lo meno a Berlino – questo parta da una ristretta frangia molto radicalizzata di rifugiati che fa proseliti: difficile immaginare che la situazione italiana sia fortemente diversa. Un esempio lo abbiamo avuto dai recenti eventi legati alle occupazioni universitarie ed è su questo che ci si deve impegnare. La nuova legge tedesca sulla cittadinanza va a inserirsi, come importante tassello, all’interno di una serie di iniziative che coinvolgono la cittadinanza, il tutto per garantire una consapevole multiculturalità.
Spiace notare che, in Italia, non si sia palesata in alcuno l’intenzione di introdurre norme simili a quelle tedesche, né risulta (ma possiamo sbagliare) che i comparatisti se ne siano interessati. Niente di male, però il problema andava sollevato, nell’auspicio che, chi ritiene di essere sinceramente democratico, prenda spunto – adattandoli alla realtà italiana – dai suggerimenti che ci provengono dagli amici tedeschi. Non si tratta di provvedere a una legge restrittiva, semplicemente di redigere una legge che all’accoglienza coniughi la sicurezza. Si tratta, soprattutto, di rispettare il principio di effettività, per impedire che la nuova legge – se mai ci sarà – muoia prima della nascita. Taking rights seriously è il titolo di un’opera di Ronald Dworkin, e ben sappiamo quanto sia necessario, per la nostra società, l’immissione di una buona dose di serietà.