(AP Photo/Efrem Lukatsky)

l'editoriale del direttore

Frenare Kyiv sulle armi significa aiutare Putin. Il coraggio che manca a Meloni

Claudio Cerasa

La svolta per aiutare l'Ucraina a difendersi è urgente: i mezzi sono già a disposizione, ma senza l'autorizzazione a utilizzarli Kyiv lentamente muore

Ieri mattina, come avrete visto, l’esercito russo ha sferrato uno dei più grandi attacchi mai registrati dall’inizio della guerra in Ucraina. Con missili a lunga gittata e droni suicidi Shahed, i droni gentilmente offerti dal regime degli ayatollah iraniani ai terroristi russi, sono state colpite infrastrutture energetiche, sono stati colpiti edifici civili, sono stati colpiti anche gli armamenti aerei trasferiti dai paesi occidentali negli aeroporti delle regioni di Kyiv e di Dnipro. Secondo il generale Oleksandr Syrsky, comandante in capo delle Forze armate dell’Ucraina, missili e droni russi, fino a oggi, hanno colpito 11.879 strutture in Ucraina, dal 22 febbraio 2022. Dall’inizio della guerra, la Russia ha lanciato 9.590 missili, 13.997 droni e circa 3.500 bombe aeree guidate, prevalentemente contro la popolazione civile. Dall’inizio della guerra, secondo i calcoli dell’esercito ucraino, sono state colpite 6.203 strutture civili. Fino a oggi, con i mezzi che ha a disposizione, l’Ucraina è riuscita ad abbattere solo 2.429 missili (il 25,3 per cento) e 5.972 droni (il 42,7 per cento). Per alcune di queste armi, una volta lanciate, come le bombe a volo guidato, non ci sono contromisure efficaci e l’unico modo per fermarle, se le si vogliono fermare, è distruggere gli aerei che le trasportano o colpire preventivamente le basi russe da cui partono gli attacchi.

 

Questi numeri possono aiutare a capire chi non vuole ancora capire che la ragione per cui il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, chiede da mesi all’occidente di poter utilizzare i mezzi che avrebbe già a disposizione per distruggere i lanciamissili e gli aerei a terra per poter difendere il proprio paese senza dover aspettare di intercettare ciò che è intercettabile sopra i cieli dell’Ucraina. L’Ucraina, ha ricordato ieri sul Kyiv Post Hans Petter Midttun, un ex ufficiale  delle Forze armate norvegesi che da mesi segue la guerra in Ucraina, “ironicamente ha i mezzi per distruggere i lanciamissili e gli aerei a terra ma non gli viene concesso di utilizzarli”. Zelensky, ieri, ha aggiunto che “ogni leader, ognuno dei nostri partner, sa quali decisioni forti sono necessarie per fermare tutta questa guerra, e per porvi fine in maniera giusta. E ognuno dei nostri partner sa che non possono esserci restrizioni a lungo termine in Ucraina se i terroristi non applicano tali restrizioni. Perché i difensori della vita non possono essere limitati negli armamenti quando la Russia usa le proprie armi di tutti i tipi. Stati Uniti, Regno Unito, Francia e altri partner hanno il potere di aiutarci a fermare il terrorismo”.

 

La ragione per cui Zelensky ha scelto di rivolgersi principalmente a Stati Uniti, Regno Unito e Francia è legata al tema dei famosi missili Storm Shadow, sviluppati principalmente grazie a una collaborazione anglo-francese, con un tocco di Italia, e i cui componenti principali sono forniti dagli Stati Uniti. L’Ucraina chiede da mesi a questi paesi di poterli utilizzare anche per colpire in Russia ma nessuno dei paesi in questione ne ha ancora autorizzato l’utilizzo fuori dai confini ucraini. Tra gli “altri partner” a cui fa riferimento Zelensky ce ne sono almeno altri due importanti. Uno è certamente la Germania, che in modo a dir poco ridicolo ha scelto di frenare ogni aiuto all’Ucraina per ragioni di bilancio (ogni aiuto è sospeso, ha fatto sapere la scorsa settimana una fonte vicina al cancelliere Scholz, a causa della necessità di tagliare i costi per affrontare il deficit di bilancio che ammonta a circa 12 miliardi di euro).

 
Un altro paese è certamente l’Italia, che oltre ad aver fornito insieme ad altri partner gli Storm Shadow, ha inviato all’Ucraina anche il così detto Multiple Launch Rocket System (Mlrs) che è un sistema di artiglieria lanciarazzi multiplo che serve a colpire con estrema precisione gli obiettivi militari. A differenza della stragrande maggioranza dei partner occidentali, molti dei quali hanno concesso di utilizzare alcune armi anche per colpire obiettivi in Russia, l’Italia è uno dei pochi paesi ad aver ipocritamente vietato all’Ucraina di poter utilizzare le armi offerte per potersi difendere nel modo più efficace possibile. La distinzione tra armi difensive e offensive, come ha saggiamente scritto su queste pagine Adriano Sofri, sta però lentamente uccidendo gli ucraini, sta legando loro le mani, sta permettendo ai russi di avere un evidente vantaggio competitivo ed è difficile non dare ragione al presidente Zelensky quando ricorda, come ha fatto ieri, che “Putin non può cambiare se stesso, perché è una creatura malata, ma è invece chiaro che Putin può fare solo ciò che il mondo gli consente di fare. E che debolezza, soluzioni insufficienti nella risposta alimentano il terrore”.

 

Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel suo favoloso discorso del Ventaglio del 24 luglio, ha ricordato che chiudere gli occhi di fronte a quello che fa Vladimir Putin in Ucraina sarebbe un modo come un altro per fare quello che fece Neville Chamberlain, primo ministro britannico alla Conferenza di Monaco nel 1938: sottovalutare Adolf Hitler nella convinzione che concedergli qualcosa, i Sudeti, sarebbe stato sufficiente per frenare l’avanzata dei nazisti. Le cose, come è noto, andarono diversamente. Ma arrivati a questo punto della storia viene da chiedersi se i paesi che scelgono di aiutare l’Ucraina chiedendo agli ucraini di legarsi le mani dietro la schiena siano paesi che le lezioni di Chamberlain vogliono scongiurarle o replicarle. Aiutare l’Ucraina ad armarsi, e a difendersi come meglio crede, significa aver capito la lezione. Aiutare l’Ucraina ad armarsi, senza dare agli ucraini la possibilità di potersi difendere, significa voler ricordare a Putin che il mondo consente alla Russia di fare ciò che non consente di fare all’Ucraina: semplicemente, provare a vincere la guerra.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.