Partecipanti alla marcia contro il blocco di "Telegram" con l'icona di Durov a San Pietroburgo nel 2018 (Foto di Valya Egorshin via Getty) 

Il doppio Durov, tra putiniani e oppositori

Giovanni Boggero

Tanto il Cremlino quanto l’opposizione russa protestano per l’arresto del fondatore di Telegram. Nessuna alleanza, l’applicazione in Russia è simbolo di due cose opposte. I commenti e la protesta. I capi d’imputazione e la risposta di Macron

Mosca. A pochi passi dalla stazione Oktjabr’skaja sorge un sontuoso palazzo realizzato nello stile dell’eclettismo russo di fine Ottocento. Oggi ospita l’ambasciata francese, davanti alla quale, domenica mattina, è andata a poco a poco radunandosi qualche decina di giubbotti bicolori nero-turchese. Nella capitale aveva appena iniziato a circolare la notizia che, nella notte, Pavel Durov, fondatore di VKontakte, prima, e di Telegram, poi, era stato arrestato al suo arrivo a Parigi dall’Azerbaigian. I primi a manifestare incredulità sono stati proprio i militanti del partito Novye Ljudi (Gente nuova), una formazione politica centrista, nata nel 2020, che il Cremlino ha contribuito a legittimare per ingraziarsi l’elettorato moderato. Sulle piante che costeggiano il muro di cinta dell’ambasciata, gli attivisti, guidati dal loro segretario, Alexander Davankov, vicepresidente della Duma di stato, hanno deposto aeroplanini di carta – l’icona simbolo di Telegram, piattaforma di messaggistica che in Russia conta più di 50 milioni di utenti giornalieri e a cui è legata anche la criptovaluta Toncoin.

   
In una capitale che dai tempi della pandemia ancora vieta le manifestazioni in luogo pubblico, il flash-mob si è svolto regolarmente e con un obiettivo chiaro: fare pressioni per ottenere l’immediato rilascio di Durov, il cui fermo, nonostante le rassicurazioni di ieri del presidente francese Emmanuel Macron, la gente comune, qui, giudica senza esitazioni come “politicamente motivato”. Le accuse che vengono ufficialmente rivolte al trentanovenne  dalla procura e su cui la gendarmeria indaga – mancata cooperazione con le autorità e complicità in reati finanziari e informatici di varia natura – non sono considerate credibili. “Il mondo non conosce piattaforma di messaggistica in cui non si verifichino violazioni di questo tipo, ma nessuno si sognerebbe di arrestarne i proprietari”, scrive nel proprio comunicato stampa Davankov che, sin da quando Instagram e Facebook sono diventate accessibili soltanto via Vpn, vuole accreditarsi come leader dell’unico partito russo che lotta per un Internet libero.

 

Ipocrisia a parte – anche Novye Ljudi ha approvato la riconferma del primo ministro Mikhail Mishustin a maggio e fa quindi parte di quella che viene chiamata opposizione sistemica (di facciata) – l’iniziativa di domenica intercetta tanto la preoccupazione delle autorità, quanto un allarme genuino nella popolazione. Da un lato, l’incertezza legata al fermo di queste ore è un colpo al cuore per il Cremlino che, attraverso la piattaforma, agevola le comunicazioni delle Forze armate impegnate in Ucraina e consente la proliferazione di canali bellicisti, così come anche per la Wagner che, per mezzo di Telegram, organizza le proprie attività militari in Africa.

 

Mentre ieri mattina il portavoce del Presidente, Dmitri Peskov, per commentare, diceva di voler attendere la formulazione dei capi di imputazione da parte della procura francese, i propagandisti del regime, la direttrice di Rt Margarita Simonyan in testa, si sono affrettati a invitare alla cancellazione di tutta la corrispondenza sensibile ospitata sulla piattaforma. Secondo il canale Baza, vi sarebbe persino già stato un ordine ufficiale in tal senso rivolto a tutti i funzionari governativi, tanta è la paura – o forse l’invidia? – che Durov possa fornire all’occidente quei dati relativi alle chiavi di crittografia che neanche Mosca è mai riuscita a ottenere.

 

D’altro canto, l’apprensione che si respira è diffusa perlopiù tra la gente comune che, dal febbraio 2022, si muove a zig zag tra repressione e censura e, come spiegano gli analisti del Dfr-Lab dell’Atlantic Council, ha trovato in Telegram uno strumento per comunicare liberamente e farsi un’opinione autonoma su quanto accade al fronte. Anziché presentarlo come uno spazio virtuale che ha sostituito i media tradizionali, in occidente Telegram è, invece, stato inquadrato alla stregua di “un negozio messo su da qualche russo per vendere armi, droga e il proprio corpo”, osserva critico sul suo canale Alexander Baunov, ex diplomatico, pubblicista, etichettato dal regime come agente straniero e riparato all’Istituto di Scienze umane di Vienna. L’oppositore Ilja Yashin, liberato da una colonia penale russa durante lo scambio di prigionieri tra Mosca e l’occidente a inizio agosto, ha definito “dubbie” le accuse francesi e ha detto di non considerare Durov un criminale. Cauto, ma consapevole del ruolo giocato in passato da Durov nel sottrarsi alle pressioni del Cremlino, è anche Konstantin Sonin, economista emigrato negli Stati Uniti dopo l’inizio della guerra.

 

Del resto, tra molti russi è ancora vivido il ricordo delle proteste di piazza del 2018, quando, dinanzi al rifiuto di Durov di soddisfare le richieste dei servizi segreti, un tribunale della capitale bloccò Telegram in tutto il paese. Solo durante la pandemia, l’autorità di vigilanza sulle telecomunicazioni ne ha ripristinato le attività, ma la sua compatibilità con la legge federale è ancora oggi alquanto dubbia. Tanto è vero che il desiderio del potere politico di controllarlo non è mai venuto meno. Accanto ai vari tentativi di turbarne il corretto funzionamento, da ultimo quello verificatosi il 21 agosto scorso, il ministero della Giustizia ha iniziato da poco a etichettare come agenti stranieri non soltanto singoli individui, ma anche i canali telegram più popolari. Il regime potrà, insomma, avere le proprie ragioni per ergere Durov a paladino della libertà di espressione – enfatizzare il doppiopesismo occidentale agli occhi dei russi, per esempio – ma non è detto che siano le medesime di chi, specie se nelle fila dell’opposizione, ha trovato in Telegram il mezzo per riorganizzarsi e che ora teme che anche quest’ultimo rifugio possa venire meno, questa volta però a seguito delle inchieste di un paese europeo.