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Sarà di nuovo la tv (e non i social) a decidere le sorti del voto americano

Serena Magro

L’esempio di Kamala e Walz rottama i luoghi comuni sul web: non sono i social a dettare l'agenda, ma la vecchia e cara televisione. I numeri da record del discorso di Harris per la corsa alla Casa Bianca

Prima di tutto diamo credito a Paul Farhi che, scrivendo sull’Atlantic, ammette di aver sbagliato in passato a prendendosela con le cable tv e chiama in correo nientemeno che il New York Times (ah, Farhi per 13 anni ha lavorato al concorrente Washington Post). L’errore ammesso e riconosciuto riguarda il peso della tv tradizionale, o leggermente trasformata con qualche innovazione nelle modalità di trasmissione, nel dibattito pubblico degli Stati Uniti e specialmente nella formazione e nel consolidamento delle opinioni politiche. Farhi, con qualche lieve dubbio ma anche con qualche dose inutile di sarcasmo, riconosce di aver scritto che la vecchia tv non aveva più capacità di influenza e che i suoi protagonisti non avevano un gran futuro, e ne fa pubblica ammenda, mentre, a sua discolpa, ricorda che il New York Times, nell’ormai lontano 2002, si era spinto a dare per certa e inconfutabile la prossima (prossima nel 2002) sparizione dei programmi di news serali, ovvero di ciò che qui, come rilievo negli ascolti e nell’influenza sul dibattito pubblico, sarebbe rappresentato dai telegiornali serali e dalle parti iniziali dei principali talk-show. Previsioni tutte sbagliate, questo è chiaro. Tuttavia, non siamo qui per criticare ma per prendere dalla riflessione di Farhi ciò che può essere utile universalmente.
 

Nell’approfondita analisi per l’Atlantic, Fahri parte dalla constatazione del successo di Kamala Harris e nota come sia arrivato proprio con la cara vecchia televisione. Con la copertura della straordinaria convention democratica, con le precedenti notizie sulla scelta della vicepresidente e sulla sorprendente decisione di accantonare il candidato di uno schieramento a poco più di tre mesi dalle elezioni. “Quando Kamala Harris si è presentata, per così dire, al pubblico con il suo discorso di accettazione della nomination democratica la grande maggioranza degli americani ha ascoltato le sue parole attraverso la tv tradizionale, esattamente come accadde per J. F. Kennedy nel 1960”. L’accostamento è tremendamente malandrino, perché tra Harris e JFK ci sono 64 anni e c’è l’avvento della rete. Eppure, è andata esattamente come scrive Farhi, con numeri perfettamente paragonabili tra i due grandi momenti di comunicazione politica. “Certo – si legge nell’analisi dell’Atlantic – la televisione non è più l’unico giocatore in campo, ma certamente è quella che fissa l’agenda per tutti”. Il punto, insomma, è che il mondo del web, come si legge in un altro passaggio, funziona da parassita del grande meccanismo televisivo, ma quest’ultimo resta l’animale dominante. Per usare i termini della biologia, non sarebbe neanche propriamente un caso di parassitismo, ma di commensalismo, dove il secondo essere vivente si avvantaggia degli scarti del primo senza creare danni.
 

Ogni sera 19 milioni di persone seguono come somma di ascolto il “World News Tonight” della Abc, il “Nightly News” della Nbc e l’“Evening News” della Cbs. Vent’anni fa gli ascolti erano maggiori, ma il ritmo del rallentamento si è fortemente ridotto e ormai la stabilizzazione attorno a numeri di grande rilievo è certa. Da noi, sommando l’ascolto di una giornata invernale di Tg1, Tg5 e TgLa7, tutti in onda alle 20, abbiamo risultati in proporzione addirittura maggiori di quelli americani, con dati superiori ai 12 milioni di ascoltatori e una quota vicina al 60 per cento dell’ascolto complessivo nei trenta minuti canonici di durata. Lo stesso Tim Walz, racconta Farhi, era un semisconosciuto governatore del Minnesota, finché una serie di interviste, di taglio popolare, con tv locali via cavo ne hanno fatto un personaggio politico degno di essere chiamato nel ticket presidenziale. Anche le pubblicità politica, che in Usa è lo strumento principale nella creazione del consenso e nella distruzione della credibilità dei candidati rivali, ha molta più efficacia in tv di quanta ne abbia sul web, perché ha bisogno di un tempo di assimilazione e di riflessione più lungo di quello che concediamo agli annunci online.
 

E qui veniamo al punto che può essere universale e che può essere aggiunto alla comunque molto approfondita analisi di Farhi. La tv ha mantenuto la sua capacità di persuasione e la sua credibilità per una caratteristica inizialmente scambiata per una debolezza e cioè perché ha una direzione univoca, dall’emittente all’ascoltatore, e perché ha un alto livello di selezione a monte. Per essere più chiari, la tv non la scegliamo, almeno non interamente. Possiamo decidere di seguire un canale più vicino alle nostre opinioni ma, a parte casi estremi (non a caso sanzionati dai bassi ascolti), c’è sempre un certo tasso di sorpresa o di opinioni avverse alle nostre nei programmi televisivi in cui ci imbattiamo. La rete, invece, un po’ per gli algoritmi, un po’ per esperimenti sconfinanti nel ridicolo, come i social trumpiani, è un luogo di spietate conferme e ripetizioni della nostra visione del mondo. Letteralmente non ci dice nulla che già non sappiamo, anche se i suoi apologeti l’hanno sempre celebrata come il luogo del free speech e dello scambio sorprendente delle idee.
 

L’utopia, o l’incubo, con cui si voleva ottenere uno strumento che (pure gratis!) dicesse tutto a tutti e a tutte e lo dicesse in base a un criterio di verità invece che in base a posizionamenti politici e storici è franata, anche se nessuno lo ammette. La tv, malgrado tutto, presenta i suoi prodotti come il risultato di un lavoro di scrematura e di selezione fatto con l’obiettivo di mantenere credibilità e non per colpire in modo indiscriminato. Non ci sono acchiappa-like o altri giochini o sono comunque limitati a piccole operazioni e a modeste velleità personali. Non l’hanno vista arrivare (o non l’hanno vista mentre restava tranquillamente nel suo posto di comando) la vecchia televisiùn, mentre con i suoi personaggi si appresta a vincere un’altra volta le elezioni.

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