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Presidenziali americane

Per scongiurare il fallimento di Hillary del 2016, Kamala se ne sta lontana dal soffitto di cristallo

Simona Siri

Non vuole vincere come prima presidente donna, nera o asiatica: Harris vuole battere Trump con argomenti seri che la proiettano direttamente nello Studio Ovale, a fianco di personalità competenti e senza scivolare sugli errori della candidata dem precedente

“So che non abbiamo ancora infranto il soffitto di cristallo più alto e più duro, ma un giorno qualcuno lo farà, e si spera che ciò accada prima di quanto possiamo immaginare”. Sono le parole di Hillary Clinton il 9 novembre 2016, il giorno dopo le elezioni vinte da Donald Trump, nel discorso dopo la sconfitta. A scriverle, in piena notte, fu Megan Rooney, già speechwriter di Michelle Obama durante la campagna presidenziale del marito nel 2008. Una veterana, quindi, che dopo il 2016 si era spostata a lavorare alla Casa Bianca. Fino alla settimana scorsa quando Rooney si è licenziata per unirsi al team di Kamala Harris. Il discorso della convention di Chicago è anche opera sua, ed è quindi ancora più significativo che da quello manchi ogni riferimento al soffitto di cristallo.

 

No, non è stata una distrazione. “Kamala Harris vuole vincere” è stato più o meno il commento unanime, a destra come a sinistra. Vuole vincere non come prima donna, non come prima donna nera, non come prima donna asiatica. Vuole vincere e basta. Vuole vincere da candidato in grado di battere Donald Trump. E così si è presentata agli elettori. Non la suffragetta in bianco, piuttosto la (già) presidente in blu scuro. Non la madre, non la figlia (sì, ha parlato della madre per due minuti su 35, che sarà mai) men che meno la moglie: è Doug Emhoff che fa il marito e lo fa egregiamente. “Nel 2016, Clinton in quanto prima donna a essere nominata presidente da un grande partito, ha dovuto fare i conti con lo scetticismo sul suo sesso. Ma nel 2024, Harris è riuscita in gran parte a evitare il problema, grazie proprio alla normalizzazione dell’idea di una donna comandante in capo, proprio come Barack Obama ha normalizzato l’idea di un presidente nero”, ha scritto Yair Rosenberg sull’Atlantic. “Non importa che sia una donna. E’ importante che sia una combattente. Ed è semplicemente fantastico che sia anche una donna”, ha detto al New York Times la senatrice Kirsten Gillibrand. 

  

  
In un momento in cui l’identity politics non se la passa molto bene, Harris si è adattata, in modo opposto ma ugualmente opportunista a quello che aveva fatto durante le primarie del 2020, quando in pieno Black Lives Matter aveva attaccato Biden accusandolo di razzismo. Di razzismo la Kamala candidata presidente non parla, lascia che lo facciano gli altri (Michelle). Non parla di sessismo, lascia che lo facciano gli altri (Hillary). Non promette le cose che piacciono a sinistra – diritto alla sanità, cambiamento climatico, scuole gratis. Parla invece di politica estera e di sicurezza al confine. Parla di argomenti che hanno permesso a chi la ascoltava di immaginarla già dentro la Situation Room. Il tema di come non ripetere gli errori del 2016 è, ovviamente, il tema. “Harris è in grado di fare una cosa che era riuscita a Obama e molto meno a Hillary, ovvero lasciare che la sua identità parli per lei, in modo da non dover dire altre cose in modo così esplicito”, ha detto il giornalista del New York Times Ezra Klein nel suo podcast.

 

Una vaghezza che si può permettere grazie all’entusiasmo che è riuscita a creare. “In questo momento c’è una specie di contratto implicito tra lei e la sua base, ovvero: lasciami fare quello che devo fare per conquistare gli elettori. Devo battere Donald Trump e poi faremo questa cosa, governando insieme”. L’attenzione oggi è su una visione “molto più olistica dell’identità, e penso che sia importante per dove siamo come paese”, ha detto al New York Times la governatrice Maura Healey, la prima donna e la prima persona dichiaratamente Lgbtq che sarà eletta governatrice del Massachusetts. Persino gli slogan sono diversi: “Quando combattiamo, vinciamo” è in un registro populista completamente diverso dallo slogan femminista da boss lady “I’m with her”. Non solo, se la campagna di Clinton fu contrassegnata da una eccessiva sicurezza, quella di Harris non lascia nulla al caso e punta a vincere esattamente i voti che servono per battere Trump facendo tutto il possibile, compresi tre viaggi in Michigan nel giro di due settimane, stato che Clinton mai visitò. Quello che non è cambiato, invece, è Donald Trump. La sua strategia di attacco è sempre la stessa, invariata nei toni, prevedibile, fuori fuoco perché ancora fissata su chi aveva contro nel 2016, mentre oggi l’avversario è Kamala. Kamala che non è “brat”“demure”. E soprattutto Kamala che non è Hillary Clinton. È oltre.