Il ritorno di Farhan e tutti i 7 ottobre di Israele

Micol Flammini

Rabbia, paura e scherno del paese fermo alla più cruda delle scelte: liberare gli ostaggi o eliminare Hamas? La corsa verso la Striscia delle famiglie dei rapiti e le divisioni sulle commemorazioni

Farhan al Qadi ha trascorso trecentoventisei giorni in prigionia, da un tunnel all’altro del sottosuolo di Gaza. Sopra la sua testa c’erano i bombardamenti, nella sua testa c’erano i ricordi della mattina del 7 ottobre che sembrava continuare imperterrita da quando stava andando al lavoro e si è ritrovato davanti uomini armati con il volto coperto che urlavano, davano ordini, uccidevano, torturavano, strattonavano, e poco importava se davanti a loro avessero un musulmano, come Farhan: era comunque un israeliano, come gli altri. Farhan è beduino, Hamas lo ha spostato da un tunnel all’altro, gli ha sparato, lo ha operato per estrarre il proiettile dalla sua gamba senza anestesia, lo ha nutrito a pane e datteri, gli ha ucciso altri ostaggi davanti agli occhi, al suo fianco.

 

Quando i soldati israeliani sono arrivati per liberarlo in un tunnel di Rafah, nel sud della Striscia, i miliziani che lo tenevano prigioniero sono fuggiti, lui si è messo in cammino nel buio che ormai conosceva da dieci mesi, ha gridato: “Non sparate, sono Farhan!”. È tornato in Israele, con la paura nascosta negli occhi, ha abbracciato famigliari e amici, undici figli e due mogli e al telefono con il primo ministro Benjamin Netanyahu ha detto, appellandolo in arabo e con molta ironia: “Abu Yair (padre di Yair), hai fatto un lavoro sacro, adesso però ci sono altri che stanno aspettando”.

 

Gli altri sono centosette, più di trenta sono morti, la società israeliana spera in un accordo per vederli tornare, protesta ogni giorno, con rabbia, con dolore, con scherno, ma mentre protesta si porta avanti e pensa a come organizzare la cerimonia in ricordo del 7 ottobre, vuole ricordare, ripercorrere, chiamare chi forse sarà ancora al di là dal confine. Si litiga anche su come ricordare, il presidente Isaac Herzog aveva proposto una cerimonia unitaria, con la politica e i militari e i civili, ma le famiglie degli ostaggi, dei ragazzi uccisi al Nova Festival, degli oltre mille cittadini trucidati in un solo giorno dai terroristi, i sopravvissuti e chi ha fatto ritorno dalla prigionia, non vogliono avere il premier e altri politici accanto nel giorno della commemorazione.

 

C’è chi si sente tradito dalle autorità perché non sono riuscite a prevenire il 7 ottobre, chi è furioso perché crede che il mancato ritorno degli ostaggi sia soltanto una questione politica e non di sicurezza, e chi invece ritiene che non sia il momento di trattare, ma di combattere, di eliminare Hamas, la causa di questo dolore. Non ci sarà un 7 ottobre, ce ne saranno molti, ognuno per ogni ricordo e per ogni perdita, ci sarà anche quello dei sopravvissuti, ce ne sarà uno per ogni kibbutz, per ogni strada.

 

Tutti ricorderanno che Israele è rimasto intrappolato nella più cruda delle scelte: liberare gli ostaggi o eliminare Hamas. Ieri le famiglie dei prigionieri sono corse al confine con Gaza, hanno percorso la stessa strada violata dai terroristi che sulle moto e i pick up portavano i duecentocinquantatré ostaggi rapiti in una mattina di ottobre. Padri, madri, amici hanno preso un microfono, hanno urlato i nomi di chi è ancora di là, anche quelli dei morti. Hanno promesso: tornerete a casa. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)